Sapore di sala

Ombre rosse e il 1939, l’anno magico del cinema

Ombre rosse è uno dei titoli più evocativi della storia del cinema. È un grumo da cui si dipanano molte traiettorie. Per cominciare il genere.

Per la prima volta un western si prestava a letture più articolate e profonde grazie anche alla (probabile) fonte, di Maupassant. La diligenza, il viaggio, i rapporti interni di un gruppo diversissimo, il pericolo che sovrasta e poi arriva, davano la possibilità a Ford di mostrare attitudini, anche intellettuali, che non gli venivano attribuite.

Ombre rosse
Ombre rosse Di John Ford

Nel Far West, una diligenza con a bordo otto persone, che non hanno niente in comune tra loro, viene attaccata dagli indiani e salvata dalla cavalleria. Il film ha avuto un rifacimento nel 1966.

Ombre rosse fa dunque parte di quelle opere che attraversano il tempo, vivono sempre e mantengono intatta la loro vedibilità. Sono omologhe, nelle debite differenze di genere, dei grandi classici della letteratura, anche se sono stati scritti secoli fa. Ford introdusse invenzioni di regia che avrebbero fatto scuola, come la cinepresa che corre parallelamente alla diligenza, per esempio. Da ricordare l’attacco finale degli indiani nel deserto, col più liberatorio degli “arrivano i nostri” della cavalleria, con tanto di tromba che suona la carica.

Dunque era ancora l’epoca in cui gli indiani non erano buoni. Una certa critica prevalente, più tardi, in chiave di politicamente corretto, avrebbe attribuito a Ford quell’abbaglio. La difesa era il quadro del tempo: per quanto geniale, il regista non intendeva essere profetico o “corretto”, aveva fatto un capolavoro e gli bastava. Ma un anno dopo, nel 1940 mise a zittire le critiche dirigendo Furore, dal romanzo di John Steinbeck. Raccontando la vicenda disperata della famiglia Joad che nell’epoca della grande depressione attraversa l’America in cerca di lavoro e sopravvivenza, Ford fece di quel film non un documento del cinema, ma un documento generale di storia. Con quel titolo vinse l’Oscar e si pose come uno dei massimi autori assoluti. Ed eccola la risposta, potente, indiscutibile, a quella critica “politica” che lo aveva tacciato di faziosità, manicheismo, persino fascismo. Furore è un grandissimo manifesto populista. Ford non era fascista e non era comunista, stava dalla parte di quella che riteneva la giustizia, si fidava del proprio buon senso e giudizio. La sua apparente semplicità era ricchezza. Anche adesso il suo mondo è condivisibile e non è mai lontano.

Ombre rosse entrava dunque nella sua legittima collocazione. Per decenni è stato considerato l’opera apicale del regista, anche se poi, col passare del tempo dei contenuti e delle estetiche, quando pensi a un western di Ford la memoria evoca Sentieri selvaggi, del 1956, nobilitato dalla testata Sight&Sound, la piattaforma che ciclicamente redige una classifica del cinema. Sentieri selvaggi occupa il sesto posto assoluto. Non è dettaglio piccolo per un western. Ma se può valere un sentimento classico e romantico, lassù ci sta sempre Ombre rosse. Lo pensano sempre in molti.

Sussistono anche dei segnali, ispirati dal film, che non sono banali. C’è un “Ombre rosse” dal significato particolare. La definizione recita: “Emeroteca digitale del socialismo umanitario, dell'anarchismo, del liberalsocialismo, del repubblicanesimo e liberalismo democratico in Europa”.

E poi c’è l’altra “Ombre rosse”, una rivista di cinema pubblicata in due serie fra il 1967 e il 1981. Era un riferimento importante, faceva testo. Eravamo in molti a consultarla.

All’inizio scrivevo “traiettorie”. Una è quel 1939. Rispetto alle annate nobili del cinema si è scritto molto, si sono tentate delle classifiche, si è persino cercato di attribuire un assoluto. Ma gli assoluti sono ambigui, e arbitrari. Però si può fare qualcosa di molto semplice. Citare titoli:

  • Via col vento: Il film dei film, primatista di Oscar, leggenda perenne.
  • Il mago di Oz: Ha reinventato il genere e fa parte del linguaggio popolare. Entrambi i titoli firmati da Victor Fleming
  • Ninotchka: di Lubitsch, quando Greta Garbo mise in ridicolo il comunismo durante la “paura rossa”.
  • Donne: di Cukor, istantanea femminile e femminista rifatto più volte.
  • Smith va a Washington: di Capra, manifesto dell’uomo che sa essere onesto.
  • Cime tempestose: di Wyler, dal bestseller della Brontë, la grande letteratura delle donne inglesi.
  • Alba tragica: di Carné, pietra preziosa del cinema francese del Fronte popolare.
  • La regola del gioco: di Renoir, altra gemma francese, tiene il terzo posto della classifica Sight&Sound.

E sono solo alcune delle opere di quell’anno. E gli autori sono tutti giganti. Si diceva “assoluti”. Se questo 1939 non è l’assoluto, ci siamo molto vicini.

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