È proprio vero: la natura delle cose ama nascondersi.
Capita così che quello che credi essere un saggio sulla letteratura keniana contemporanea si rivela il racconto di un viaggio, un pamphlet politico, una guida culturale e una storia d’amore. Il libro che ho in mente s’intitola Turbo Road (Meltemi) e lo ha scritto Shaul Bassi, professore di letteratura inglese a Ca’ Foscari, anche lui difficile da incasellare in categorie troppo rigide, soprattutto perché non crede nei confini, almeno quelli tra i campi del sapere.
Turbo Road è una piccola strada nei sobborghi di Nairobi. Qui vive una nuova famiglia: due genitori italiani e un figlio kenyano. È da qui che parte questa indagine letteraria – fatta di letture, interviste, visite a scrittori più o meno famosi – pensata come guida ideale per andare oltre l’Africa stereotipata dell’immaginario occidentale.
Bassi è riuscito negli anni a rivelare il dialogo sotterraneo tra temi all’apparenza lontani. Per esempio: Shakespeare e le letterature postcoloniali, l’ebraismo e le scienze umane per l’ambiente, l’arte, l’attivismo. Sullo sfondo, presente anche quando non lo è, la sua città: Venezia, quella città invisibile e implicita in ogni luogo, che prova a capire il mondo partendo da sé e a cui di recente proprio Shaul ha dedicato un articolo sul nostro magazine. Non a caso, a Venezia da anni Shaul anima il festival Incroci di Civiltà che invita in laguna grandi protagonisti della scena letteraria globale e li fa dialogare. Qualche nome? Amitav Ghosh, Antonia S. Byatt, Salman Rushdie, Abraham Yehoshua, Maaza Mengiste, Daniel Pennac, Yasmina Reza e tantissimi altri.
Che cosa sorprende in Turbo road? Anzitutto il sottotitolo: Il Kenya, i suoi scrittori e un bambino. E poi il racconto. Perché Bassi ci parla di una storia personale, l’adozione di un bimbo keniano che porta lui e sua moglie, la storica della danza Susanne Franco, a scoprire loro stessi e un mondo ricco di paesaggi, storie, umanità. È un mondo abitato da miriadi di lingue, costellazioni di riviste e scrittori, attivisti, uomini e donne coraggiosi, e dotato di una scena letteraria vivacissima che vale la pena conoscere meglio. Abbiamo per questo incontrato Shaul Bassi e gli abbiamo chiesto di raccontarci il suo percorso e darci qualche consiglio di lettura.
Wainaina ha impiegato sette anni per raccontarne poco più di trenta della sua vita in questo memoir di formazione che ha l'impatto di una confessione collettiva, quella del continente africano che si confronta con il mondo. La sua non è un'infanzia di stenti, la sua non è l'Africa degli affamati e delle multinazionali ma un'Africa che vuole trarre forza dalla diversità.
Serenella Iovino: Partiamo da Turbo Road. Com’è nato, il libro? E in che modo la letteratura ti ha guidato mentre diventavi genitore adottivo?
Shaul Bassi: In un certo senso è stato un viaggio circolare. Il Kenya era per me un luogo dell’immaginario dell’infanzia e lo avevo conosciuto meglio solo attraverso i libri.
La prospettiva di abitarci per diversi mesi ha attratto irresistibilmente me e mia moglie, convinti che immergerci nel paese dei figli che avremmo adottato avrebbe aiutato noi e loro.
Quando abbiamo incontrato PK che aveva due anni, grazie a una straordinaria associazione chiamata Mehala, ho approfittato dei sette mesi di vita a Nairobi per incontrare tante scrittrici e scrittori, interessanti per me sul piano professionale ma anche guida impareggiabile al Kenya di nostro figlio.
Spesso quando viaggiamo cerchiamo solo conferma di quello che già sappiamo o pensiamo di sapere; la letteratura ci permette di accedere a realtà a cui la maggior parte dei viaggiatori, soprattutto quelli poco avventurosi come il sottoscritto, non avrebbero mai accesso. Turbo Road è in parte intervista, in parte autobiografia, in parte racconto di libri e personaggi straordinari. Io penso che ognuno di noi si rispecchi nelle cose che legge e cambia grazie a esse, soprattutto in vicende lontanissime dalle nostre. È questa fondamentale dialettica tra somiglianza e differenza che non smette di affascinarmi.
SI: Quali sono secondo te i libri che vale la pena leggere per avvicinarci alla letteratura keniana?
SB: Tra quelli disponibili in italiano comincerei senz’altro da due volumi dell’autobiografia di Ngugi Wa Thiong'o, Sogni in tempo di guerra e Nella casa dell’interprete (Jaca Book), che si leggono come un romanzo e raccontano la straordinaria transizione del Kenya da colonia a postcolonia. Per divertirsi, ridere e scoprire esistenze africane lontanissime dai luoghi comuni, passerei alla generazione successiva con il romanzo Un giorno scriverò di questo posto (66th and 2nd) dello sfortunato Binyawanga Wainaina.
E poi spero che qualche editore accetti la sfida di tradurre in italiano i due straordinari romanzi di Yvonne Adhiambo Owuor, Dust e The Dragonfly Sea, un migliaio di pagine complessive di scintillante bellezza. In attesa di questo, di Owuor e altri autori kenyani si possono leggere dei racconti nella importante antologia Africana (Feltrinelli), magistralmente curata da Igiaba Scego e Chiara Piaggio. Una delle cose che mi hanno attratto molto è che la letteratura kenyana, poco nota rispetto alle ricchissime produzioni sudafricane e nigeriane, sembra scritta principalmente per il proprio paese e non per avere successo in Occidente.
Africana è uno strumento per capire quanto l'Africa non vada coniugata al singolare, ma al plurale. Uno strumento di difesa contro gli stereotipi e contro tutte quelle visioni che ancora vogliono descrivere questo enorme continente, così vario al suo interno, come una lunga distesa di capanne. Africana aprirà le porte al lettore, sia a quelli che già sono appassionati delle letterature del continente sia a quelli completamente a digiuno, delle tante Afriche dentro l'Africa.
SI: Che significa per te viaggiare, anche letterariamente, nel “Sud globale”? E magari farlo proprio a Venezia? Il tuo Venezia africana (Wetlands) che hai scritto insieme a Paul Kaplan vedrà presto la luce.
SB: Ti confesso che ho qualche riserva su questa definizione, che secondo me rischia a volte di appiattire troppe differenze individuali e si porta dietro alcune delle problematiche che una volta associavamo alla nozione di Terzo Mondo, trasformando tutte le opere letterarie non occidentali in ‘allegorie nazionali’, come le aveva chiamate Fredric Jameson. Permane cioè il rischio di ricercare in uno scrittore kenyano solo la sua kenyanità, prima che la sua voce autonoma. Io ho cercato voci forti che raccontassero il Kenya perché era diventato un po’ anche, in tutti i sensi, il mio paese di adozione.
Poi ho riportato queste cose a casa mia, analizzando il modo in cui l’Africa è stata immaginata e feticizzata in una città come Venezia. Lavorando con uno storico dell’arte come Paul Kaplan, che ha lavorato per decenni studiando la rappresentazione degli africani nella pittura e scultura veneziana, abbiamo creato una guida che include anche molti testi in cui intellettuali africani e afrodiscendenti di oggi – Maaza Mengiste, Igiaba Scego, Rita Dove e Ngugi stesso – raccontano Venezia dalla loro prospettiva, come soggetti e non come oggetti della rappresentazione.
SI: Veniamo a un’altra radice in cui si mescolano le tue: Shakespeare. Ricordo infatti che è appena uscita la tua Guida al Mercante di Venezia (Carocci) e che hai pubblicato, con lo scrittore Alberto Toso Fei, un godibilissimo Shakespeare in Venice. Ma Shakespeare è anche un ponte verso altri mondi. Perché è così importante per gli studi postcoloniali? E che cosa ha dato a te, che sei ebreo e studioso di ebraismo?
SB: Shakespeare è un linguaggio che usiamo da quattro secoli per tradurre noi stessi. Non è universale, non è eterno, ma metamorfico, e, sicuramente facilitato dall’impero britannico, è capace di riflettere le condizioni delle culture più diverse. È affascinante il modo in cui è stato appropriato anche da molti ex sudditi coloniali che lo hanno usato per esprimere la propria condizione.
Questo meccanismo si applica bene al Mercante: Shylock è un ebreo immaginario, inconcepibile storicamente, ma è anche un personaggio estremamente complesso ed ambivalente. Per questo è stato spesso usato per propagare contenuti antisemiti ma anche per suscitare comprensione verso gli ebrei o altre minoranze. Per esempio, è interessante vedere come nell’attuale conflitto tra israeliani e palestinesi molti temi ed immagini dell’opera vengano evocati nei commenti pubblici. Il Mercante ci aiuta a capire come società che si credono laiche siano ancora attraversate da fantasmi teologici che bisogna conoscere per non farsene condizionare.
SI: In tutto quello che fai il tema letterario e culturale s’intreccia con l’attivismo e l’impegno. Capita con gli studi postcoloniali come con quelli di scienze umane per l’ambiente. Anche qui ci sono stati alcuni incontri importanti, su tutti quello con Amitav Ghosh che ti cita spesso nei ringraziamenti dei suoi libri. Uno degli ultimi, L’isola dei fucili, è proprio il frutto di un tuo invito come writer in residence per un progetto veneziano. Ci puoi dire di più?
SB: Ho conosciuto Ghosh grazie alla sua straordinaria traduttrice Anna Nadotti, e lo abbiamo invitato a Venezia perché scrivesse del Ghetto. Nelle residenze letterarie il successo avviene spesso grazie all’imprevisto, alla curiosità dell’ospite che non si limita al suo onesto compitino ma rende proprio il progetto. Ghosh ha saputo raccontare la Venezia contemporanea della migrazione e del cambiamento climatico sottraendola ai cliché del romanticismo: L’isola dei fucili è un romanzo avvincente che ha dei personaggi straordinari, soprattutto donne, che uniscono l’impegno intellettuale e quello civile, e io mi rispecchio molto in loro.
Commerciante di libri rari e oggetti d’antiquariato, Deen Datta vive e lavora a Brooklyn, ma è nato nel Bengala, terra di marinai e pescatori. Non c’è stato perciò tempo della sua infanzia in cui le leggende fiorite nelle mutevoli piane fangose del suo paese, affascinanti storie di mercanti che scappano al di là del mare per sfuggire a dee terribili e vendicatrici, non siano state parte del suo mondo fantastico.
SI: Quali sono stati gli altri writers in residence del vostro programma e quali libri sono venuti fuori dalla loro esperienza?
SB: L’esempio più fulgido è Pavone e rampicante (Einaudi) di Antonia S. Byatt, appena scomparsa che, dopo un mese a Venezia ospite dei Musei Civici veneziani e di Incroci di civiltà, ha scritto questo affascinante ritratto parallelo di William Morris e Mariano Fortuny. E poi ho avuto la fortuna di curare l’antologia Il cortile del mondo (Giuntina) dove il Ghetto di Venezia è rivisitato da una ventina di nomi come Anita Desai, Daniel Mendelsohn, Agata Tuczynska, Caryl Phillips, Edmund de Waal. Doveva esserci anche Ghosh ma poi ha scritto il suo romanzo!
SI: Venezia è l’osservatorio privilegiato per le dinamiche ecologiche e climatiche planetarie. Tu hai diretto un centro di ricerca che ora si chiama NICHE, The New Institute for Environmental Humanities. Un’esperienza significativa di NICHE è stata l’Anthropocene Campus, che ha anche prodotto un libro pionieristico: Venezia e l’Antropocene. Una guida ecocritica. Ci dici in due parole che cos’è e se è utile al grande pubblico?
SB: Venezia è una famosa meta turistica ma è anche la frontiera del cambiamento climatico, che non si può ridurre alla semplificazione dell’acqua alta bloccata dalla tecnologia del MOSE. Nella nostra università Ca’ Foscari abbiamo investito molto nelle Scienze umane per l’ambiente, di cui tu sei illustre esponente, creando un centro di ricerca interdisciplinare e la prima laurea magistrale in Italia. Questo ci ha permesso importanti collaborazioni ed eventi internazionali, come il Campus a cui hanno partecipato studiosi, artisti, attivisti. Da quella esperienza, e grazie alla visione della casa editrice Wetlands, è nata la guida ecocritica che esamina una trentina di luoghi ed elementi veneziani alla luce della crisi ambientale. È un libro sorprendente che meriterebbe di essere emulato in altre città.
SI: L’ultima domanda ci riporta a casa tua. Qual è il primo libro che tu e Susanne avete letto a PK quando è diventato veneziano?
SB: Non abbiamo mai smesso di leggergli i suoi (e nostri) libri preferiti, come Greedy Zebra di Mwenye Hadithi (che spero trovi prima o poi un editore italiano), ma nella sua nuova città ci siamo affidati anche a Laguna l’invidiosa di Tiziano Scarpa.
Grazie Shaul!
Come appare Venezia quando la si osserva con il pensiero rivolto ai cambiamenti climatici, al collasso ambientale e alle relazioni tra umano e non-umano in un’epoca di industrializzazione ed estinzioni di massa? Pensando, cioè, alla città d’acqua come a un osservatorio privilegiato dell’Antropocene?
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