Scrivere è un po’ come giocare a tennis. Mi ci ha fatto pensare per la prima volta Vittorio, il mio maestro che ripete sempre - mentre sono in campo e maledico quel rovescio incrociato che non è mai angolato come vorrei io - tre cose: la prima è che puoi essere Agassi, ma se in campo non resti concentrato perdi anche con l’ultimo arrivato. La seconda è che nel tennis non bisogna mai avere fretta, la palla va aspettata e il colpo deve essere preparato con calma. La terza è che conta il finale. Parliamo del movimento del corpo. Farlo correttamente fino in fondo indirizza inevitabilmente anche la parte precedente. Insomma: se lavori concentrato per fare un buon finale, anche il movimento che lo precede sarà soddisfacente.
Sii concentrato, abbi pazienza e prenditi cura del finale. Tre lezioni di teoria essenziali per farmi capire cosa devo fare nella pratica e anche per far scattare una scintilla nella mia testa e tornare al punto di partenza di questo articolo: scrivere è un po’ come giocare a tennis.
Che il tennis fosse uno sport epico e letterario in fondo lo si è sempre saputo. Sicuramente c’entra il fatto di mettere due persone l’una davanti all’altra e farle confrontare. Senza contatto fisico, senza un contatto diretto con la palla e senza avere la certezza della durata. È un gioco di assenze, il tennis: due persone da sole, disposte a ferirsi e sfinirsi finché soltanto una resterà in gioco (metaforicamente e non). E poi ogni partita di tennis - che sia giocata in periferia o sul campo centrale di qualche torneo ATP - conserva nel suo cuore la struttura del romanzo.
Qualche esempio? Della sfida con l’altro abbiamo già detto. C’è la sfida con sé stessi (se mettessimo su carta i pensieri di un giocatore durante una partita avremmo un genere nuovo e affascinante, la letteratura dell’introspezione) e poi la direzione della gara può cambiare una, due, tre, infinite volte. Il colpo di scena finché non esci dal campo è sempre possibile. Abbiamo tutti la storia del campione che ha buttato la vittoria a un passo dal punto finale e anche quella di chi ha saputo rialzarsi quando sembrava impossibile farlo. Per esempio, Novak Djokovic è uno di quelli che inizia a giocare bene (leggi pure: in maniera divina) solo quando è in svantaggio. Sembra Rocky che si esalta quando è ferito a sangue e sì, quello di Stallone sarà pure un personaggio cinematografico, ma è incredibilmente letterario. A questo punto per chi scrive (ma forse anche per chi legge) il confine è diventato davvero labile e fluido. Stiamo parlando ancora di tennis o di letteratura?
Marco Carrera, il protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, è il colibrì. La sua è una vita di continue sospensioni ma anche di coincidenze fatali, di perdite atroci e amori assoluti.
Sandro Veronesi in un’intervista rilasciata nei giorni in cui usciva in libreria Il colibrì (titolo che gli valse il secondo Premio Strega) si soffermò sul match Isner-Mahut di Wimbledon, il più lungo della storia, undici ore e 5 minuti spalmate su tre giorni (22 – 24 giugno 2010): «In quei tre giorni è successo di tutto nel mondo, Obama licenziava il generale delle truppe alleate in Afghanistan, l’Italia fu eliminata dai Mondiali di calcio in Sudafrica, la regina Elisabetta tornò dopo 33 anni al Royal Box ma le regole del torneo impedirono di spostare la partita sul centrale di Wimbledon. Tutto questo mentre gli occhi del mondo, una parte di mondo, volevano stare solo sul quel campo numero 18 dell’All England Lawn and Tennis Club. A proposito della domanda se il tennis è o no uno sport letterario».
Vladimir Nabokov da ragazzo si guadagnava qualche introito extra dando lezioni di tennis (pare fosse un ottimo giocatore) ed è proprio questo sport a fare da ponte e a trasmettere tensioni sessuali e primordiali tra Humbert e Dolores, nel suo capolavoro Lolita. David Foster Wallace ha scritto alcune delle sue migliori pagine mettendo il tennis al centro della sua narrazione. Ha fatto di Federer un oggetto feticcio e il perno di un’esperienza religiosa, e non ha avuto ragione lui? Se chiudiamo gli occhi Federer non ci appare vestito di bianco, etereo e sorridente? Se non è un’esperienza religiosa questa allora cosa? Wallace il meglio di sé però (opinione di chi scrive) lo dà nel racconto Tennis, trigonimetria e tornado. Qui capiamo quanto il tennis possa essere tante cose tutte insieme: passione, sport, matematica, geometria, intersezioni di linee rette, critiche alle accademie e lodi all'ipersudorazione. Per dovere (e piacere) di sintesi potremmo dire che alla fine il tennis è semplicemente una cosa sola. Letteratura.
Pubblicata dopo il successo mondiale di Infinite Jest, che consacrò Wallace come uno dei migliori narratori americani contemporanei, questa raccolta ne rivelò anche il talento di saggista e osservatore del proprio tempo.
Tempo fa in Vittorie imperfette ho raccontato la finale di Wimbledon del 2019 tra Federer e Djokovic. Ho scritto di quell’impietosa ultima palla schizzata via troppo velocemente dalla racchetta dello svizzero e finita fuori dal campo. Uno schizzo, un attimo, un frammento di tempo troppo breve davanti a una finale lunghissima (la più lunga della storia del torneo: 4 ore e 57 minuti). Battuta – risposta di rovescio (incrociato) – errore.
Un ultimo punto che forse non rese omaggio a chi in quella domenica pomeriggio si era accollato le nostre vite e i nostri problemi, mentre in un’apnea collettiva svuotavamo le nostre teste e i nostri cuori. Guardavamo Djokovic e Federer, tifavamo e il resto non esisteva.
Quando l’ultima palla schizzò via così male ci svegliammo improvvisamente. L'incontro era finito, eravamo tornati alle nostre vite. Di colpo. I due tennisti non ebbero nemmeno la forza di reagire. Fecero entrambi una smorfia. Si intravedeva un sorriso sul volto di Djokovic, la rassegnazione su quello di Federer. Tutto qui. Un finale crudele e dunque bellissimo. Ogni volta che Vittorio mi ricorda che devo curare il finale dei miei movimenti penso a quelle due smorfie. Al finale perfetto di una domenica pomeriggio indimenticabile. Era Wimbledon, c’erano Federer e Djokovic e una pallina gialla viaggiava da un lato all’altro del campo, distribuendo la sua personale punteggiatura dentro quella storia. Poff.
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