Incontro
Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.
L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschìa d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.
Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, a pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.
L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
(da Cesare Pavese, Poesie, a cura di Marco Villa e Niccolò Scaffai, commento alle poesie di Marco Villa, appendice critica di Anna Carocci, Garzanti, Milano 2023)
Cesare Pavese scrive Incontro nel 1932, ma la pubblica soltanto nella seconda edizione di Lavorare stanca, quella Einaudi del 1943. È una poesia-destino, che sembra introdurre a tutto il lavoro di Pavese, ai suoi temi, al suo rovello. Si può dire infatti che lo scrittore e poeta abbia cercato per tutta la sua breve vita (1908-1950), per tutta la sua opera, di trovare il proprio destino, di riconoscersi. In questo testo la premonizione è fortissima. C’è una donna aleggiante, nata dal paesaggio e dal ricordo, diciamo dal mito della propria esistenza. Ma incontrarla e conoscerla non si può. Al poeta spetta il compito di pensarla e quasi di crearla, come egli dice, dal fondo delle cose che più profondamente gli appartengono.
Cesare Pavese esordisce nel 1936, e lo fa con un libro di versi, Lavorare stanca , dai tratti realistici e narrativi, in netta contrapposizione agli orientamenti poetici all'epoca dominanti. Nonostante il successivo passaggio alla prosa, la poesia accompagnerà Pavese sino alla fine dei suoi giorni.
Una volta evocata, tuttavia, la donna fatta delle cose che intessono anche la vita del poeta, che intessono la sua voce, la sua attesa, non può essere raggiunta. Esiste come una proiezione, una figura prodigiosa e inattingibile. La sorte del poeta appare qui come quella di uno che cerca la corrispondenza nelle cose amate e non la trova, che rimane escluso dall’alleanza di senso che pure pare dispiegarsi davanti al suo pensiero. Un senso esiste, una rivelazione, un miracolo di presenza e di compagnia, ma ci è tragicamente inafferrabile, per quanto possa essere pensato ed elaborato: la nostra sorte di uomini, suggerisce il poeta, o almeno la sua sorte di uomo e di scrittore, consiste in questo sporgersi e tentare l’impossibile incontro, quello del titolo, che non avviene mai e che sempre il cuore desidera e attende.
Dietro la figura che Pavese disegna c’è senza dubbio l’esempio di Leopardi, quello di Alla sua donna, la canzone del settembre 1823 che si conclude con tali versi dedicati alla donna che non si trova: «di qua dove son gli anni infausti e brevi, / questo d’ignoto amante inno ricevi». Le cose non corrispondono, in Leopardi, in Pavese, alla nostra richiesta, eppure i due poeti non escludono che la pienezza esista, che la corrispondenza sia possibile, ma non ora, non qui.
Forse nel tempo perduto dell’infanzia (propria o del mondo) o in uno a venire, in un altrove. Il ritmo che Pavese orchestra per dire il suo struggimento è quello anapestico (il piede che nella metrica classica è costituito da due sillabe brevi e una lunga): molti versi hanno accenti di terza, sesta, nona e semmai dodicesima e anche quindicesima sillaba, a partire dal primo. È un’onda sonora, per mezzo della quale una diversa idea metrico-prosodica viene messa a punto, diversa da quella tradizionale. Tale ritmo, quasi ipnotico, diviene il ritmo stesso dell’impossibile accordo, dell’inattuabile incontro, quell’incontro per cui il cuore trabocca, ma che non è possibile realizzare. La poesia è nel cuore della mancanza, acuta come una presenza, fonda più della stessa realtà.
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