Poi – è storia nota – a un certo punto, in maniera illegale, il nuovo si fa strada; e al seguito del dilagare di nuovi mezzi e strumenti si muove la politica, si muove la legge. La pillola si diffuse in maniera illegale, o al margine della legge: dopo di che la contraccezione divenne legale anche per i minori (art. 2 della legge 194, ultimo comma). Chissà forse qualcosa di simile avverrà per l’aborto.
Quarantacinque anni fa, il 22 maggio 1978, la legge 194 iniziava a garantire in Italia l’interruzione volontaria di gravidanza e la tutela sociale della maternità. La citazione in apertura è tratta da uno scritto di Laura Corti del maggio del 1981, in prossimità dei due referendum abrogativi di questa legge così tanto discussa e ritenuta imperfetta da vari fronti, inefficace contro il suo principale obiettivo: contrastare il regime di clandestinità in cui l’aborto continuava ad avvenire, ancora agli inizi degli anni Ottanta, per mezzo milione di donne ogni anno.
La 194 è uno degli avanzamenti legislativi fondamentali avvenuti durante gli anni Settanta nell’ambito sanitario italiano. Riforme che poggiavano su una nuova sensibilità per i temi legati alla sfera della salute e che riverberavano le istanze di un ampio spettro di movimenti di contestazione.
È il momento in cui il nuovo, per farsi strada, apre delle brecce stressando i confini della legalità – come scrive Laura Corti – e genera un fermento che percorre trasversalmente la società e il parlamento su vari aspetti della realtà sociale, anche oltre l’aborto “libero, gratuito e assistito”: dalle sperimentazioni antipsichiatriche, alle lotte sindacali per la salute sul posto di lavoro, all’istituzione dei consultori familiari fino alla creazione del Servizio sanitario nazionale.
Martedì 5 giugno si apre a Padova il processo contro Gigliola Pierobon, una compagna di Lotta Femminista, accusata di aborto. Quello di Gigliola Pierobon non è un caso particolare: è la regola. È la regola della giustizia e della legge borghese, che attaccano e puniscono chi non ha i mezzi materiali per sfuggire. Gigliola ha abortito a 17 anni. Avere un figlio era un lusso troppo caro per le condizioni in cui si trovava: figlia di agricoltori, senza lavoro e senza la speranza di trovarne uno, non sposata, e quindi priva della sacra legalità del matrimonio.
Si tratta di un volantino di Lotta Femminista, distribuito al Teatro Ruzante a Padova il 12 marzo 1973 in occasione di un dibattito sulla Legge Fortuna. Il caso di Gigliola Pierobon – la ventitreenne accusata di reato d’aborto, per averlo fatto illegalmente all’età di 17 anni e nell’ambito di una relazione extraconiugale – fa da cassa di risonanza mediatica delle contestazioni italiane su questo tema.
La prima cosa da fare era appunto rompere il silenzio. Così racconta anche la scrittrice Annie Ernaux nell’Evento, dove ripercorre minuziosamente i ricordi del suo aborto clandestino nella Francia degli anni Sessanta: una realtà in cui la sola parola aborto «era qualcosa che non aveva posto nel linguaggio», e faceva di questa pratica un’esperienza che nella maggior parte dei casi veniva vissuta nella totale indicibilità.
Come spesso avviene nella storia delle donne, sono i movimenti minuti – agiti e scelti nella sfera considerata tradizionalmente soltanto “privata” – a smuovere l’attenzione dell’opinione pubblica e di conseguenza il dibattito politico. In maniera analoga al caso Pierobon, un anno prima in Francia, l’opinione pubblica si era spaccata sul tema dell’aborto a partire dal caso di Marie-Claire Chevalier e anche negli Stati Uniti, nel 1973, era stata la sentenza Roe vs Wade a creare il precedente legale per la legittimazione della pratica abortiva.
A cavallo tra anni Sessanta e Settanta, un insieme ampio e sfaccettato di soggetti va ad animare la campagna italiana per la depenalizzazione dell’aborto. Nel 1970 è il Movimento di liberazione della donna, legato al partito Radicale, a fare dell’aborto una delle sue battaglie principali, sostenendo autodenunce pubbliche di procurato aborto. Il 20 settembre 1973, in Porta Vigentina a Milano, presso la sede del Partito Radicale, veniva fondato il CISA (Centro Informazioni Sterilizzazione e Aborto), un centro creato per offrire un servizio di aborto a prezzi politici vantaggiosi rispetto a quelli praticati clandestinamente dai medici, in un clima di socializzazione della pratica e di superamento del senso di colpa.
Il movimento femminista si inserisce in questo scenario aggiungendo a sua volta una pluralità di punti di vista sul tema, talvolta molto critici rispetto al processo di istituzionalizzazione dell’aborto gestito dal sistema ospedaliero, in chiave assistenzialista.
La tendenza del movimento femminista era di illuminare la dimensione politica e l’intreccio di questioni legate al controllo del corpo da parte di un sistema considerato sessista e patriarcale. L’obiettivo era minare alla radice l’assunto secondo il quale la sessualità era finalizzata alla sola procreazione, e non ridurre la questione dell’aborto a un mero dispositivo legislativo, che – temevano – avrebbe deresponsabilizzato gli uomini e incrementato il potere dello Stato di gestire i corpi delle donne.
In più, parlare di aborto, soprattutto nel femminismo di radice marxista, significava inserire nell’analisi critica l’asse della classe sociale, alla luce della quale si vedeva con massima chiarezza che l’aborto rappresentava un altro modo specifico di “morire di classe” – usando il titolo della celebre inchiesta fotografica di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin sulle condizioni disumane in cui versavano gli ospedali psichiatrici. Perché ad abortire nella clandestinità erano soprattutto le tante Gigliola Pierobon, donne «proletarie, senza lavoro, senza reddito».
Oggi il dibattito sull’aborto è radicalizzato dalle minacce di regressione che si verificano su scala globale, dagli Stati Uniti all’Ungheria, passando per la Croazia e la Polonia; motivo per cui, il 7 luglio 2022 il Parlamento europeo ha avanzato la proposta di aggiungere un punto alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea per garantire «il diritto all’aborto sicuro e legale».
Agli inizi degli anni Ottanta, Laura Corti immaginava provocatoriamente che la libertà di scegliere e autodeterminarsi, per le donne, potesse trovare una sintesi in un gesto banale come servirsi di un distributore automatico. Un gesto alla portata di tutte:
Chissà, forse qualcosa di simile avverrà per l’aborto. [...] Una ragazzina scuoterà nervosamente il distributore automatico per far scendere la candeletta vaginale alle prostaglandine, e il suo problema più grave sarà quello di far funzionare ‘sta maledetta macchina mangia monete. Ragazzina, le detesto anch’io ‘ste macchine. E mi piacerebbe che la tua libertà, la tua signoria sul tuo proprio corpo non ti venisse né dalle provette dei laboratori né dagli ingranaggi della macchina, ma ti venisse da noi. Dalla nostra onestà intellettuale, dal nostro rigore, dal nostro vigore.
Con altri termini, l’appello del parlamento europeo continua a parlare di donne in condizioni di povertà, razzializzate, «provenienti da zone rurali», persone LGBTQ, donne migranti, donne con disabilità, adolescenti, donne sole nella gestione della famiglia. Strasburgo pone l’accento su quella serie di linee di confine – etniche, economiche e sociali – oltre le quali i dispositivi di tutela e le garanzie per un aborto libero, gratuito e assistito risultano più inefficaci. L’immagine dell’autodeterminazione femminile “al distributore” invece che rigettarci in un contesto anni Ottanta risulta ancora del tutto utopistica perché nuovi silenzi, impedimenti e zone d’ombra si accampano intorno al diritto di poter scegliere, tutte, consapevolmente del proprio corpo.
Di
| L'orma, 2019Di
| Fandango Libri, 2023Di
| Fandango Libri, 2017Di
| Feltrinelli, 2007Di
| Fandango Libri, 2013Di
| La Corte Editore, 2022Di
| Giraldi Editore, 2018Altri approfondimenti
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