Elena di Porto, classe 1912, era il prototipo della reietta. Povera di una povertà millenaria in un mondo, quello della prima metà del Novecento, che stava proprio in quel periodo sostituendo il culto della povertà con quello della ricchezza. Donna, in un mondo saldamente maschile, e donna che si voleva libera, nel mezzo della prigione del patriarcato.
E infine ebrea, proprio alla vigilia dell’immane tempesta dello sterminio europeo.
Una donna durante il Ventennio, un desiderio di libertà: il saggio di Gaetano Petraglia ripercorre una vita fuori dagli schemi, quella di Elena di Porto, e una storia terribile che l'ha considerata pazza e l'ha condannata a morte.
Talmente eccentrica, talmente poco conformata alla disciplina che i molti stereotipi che le si addossavano avrebbero richiesto, per ricollocarla nel panorama sociale della sonnacchiosa Roma ebraica di inizio fascismo venne data per pazza: Elena di Porto fu per tutti “la matta di piazza Giudia”. Ma, come riportano le testimonianze dell’epoca, «nun era matta pe’ niente».
Libera e disinibita, irascibile, sanguigna, pronta a difendersi a pugni e schiaffi, se necessario, Elena era una donna dal carattere forte e volubile che semplicemente odiava i soprusi e i prepotenti. Era quindi, nella Roma di cartapesta e petti gonfi del Ventennio, «un’antifascista naturale».
Gaetano Petraglia, nel suo bel La matta di piazza Giudia, storia e menoria dell’ebrea romana Elena di Porto (Giuntina 2022), ricostruisce in modo esemplare, attraverso fonti archivistiche e testimonianze dirette, la straordinaria vita di una donna comune che non seppe né volle piegarsi agli sforzi congiunti di patriarcato, fascismo e antisemitismo.
Più volte rinchiusa in manicomio per condotta asociale, attenzionata per anni dalle spie del regime, sbattuta al confino all’inizio della guerra fascista come elemento sedizioso e infine deportata nel rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943. Da quest’ultima cattività non tornò più, ma il suo ricordo si incardinò nei pochi superstiti della comunità ebraica romana e nei quartieri poveri della capitale ex fascista, divenendo il simbolo della capacità di resistere alle imposizioni e alle convenzioni di un potere che indossa molte facce – come quella del senso comune, dell’ordine o della cosiddetta normalità – ma che ha un solo scopo: il controllo dei singoli.
L’autore, ripercorrendo la vita di Elena di Porto, riesce inoltre a ricostruire uno spaccato puntuale della Roma del primo Novecento e della situazione della sua comunità ebraica, soffocata dall’evoluzione fascista dell’antigiudaismo millenario in antisemitismo ben prima delle famigerate leggi razziali del ’38. Un libro quindi che non è solo una biografia, ma un prezioso saggio di microstoria.
Non leggetelo se credete alla favola del fascismo «antisemita per convenienza»: carte alla mano, tutto il razzismo di queste pagine è antico, e made in Italy.
Non leggetelo se pensate che le donne debbano «stare al proprio posto», perché il posto delle donne è dove le donne decidono di stare.
Non leggetelo se siete affezionati alle figure lineari, ai buoni e ai cattivi: Elena non era così; Elena era vera.
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