Luce sulla Storia

La parola contro i segni. Il difficile riconoscimento della LIS

Illustrazione digitale di Marta Punxo, 2023

Illustrazione digitale di Marta Punxo, 2023

Dal 6 all’11 settembre 1880 si svolge a Milano il Congresso internazionale «per il miglioramento della sorte dei sordomuti», un'iniziativa che viene ricordata come l’inizio del «medioevo culturale dei sordi», durato, secondo alcuni, fino agli anni Ottanta del Novecento.

Nelle dichiarazioni finali del Congresso si affermava che «per restituire il sordomuto alla società» il metodo orale doveva essere preferito a quello della mimica: «considerando che l’uso simultaneo della parola e dei gesti mimici ha lo svantaggio di nuocere alla parola [...] e alla precisione delle idee».

L’appuntamento internazionale rappresenta una svolta nel sistema di insegnamento per sordi che impatta sulle finalità profonde delle proposte educative. Sulla carta, l’intenzione era rompere l’isolamento e creare occasioni di contatto con il resto della società, nei fatti, al Congresso di Milano la parola ha vinto sulla lingua segnata.

Bandire la lingua dei segni significava stroncare lo strumento naturale di comunicazione per le varie comunità sorde, uno strumento fluido che assumeva forme e caratteristiche proprie in ogni scuola, istituto, famiglia e circuito ristretto di persone segnanti. Lingue a pieno titolo, fatte di grammatica e sintassi, che andavano a comporre un universo polverizzato di lingue ancora lontano dall’essere canonizzato in una versione ufficiale.

«Fin dall’inizio i miei occhi avevano inconsciamente cominciato a tradurre il movimento in suono», scrive il poeta sudafricano David Wright, diventato sordo all’età di sette anni, nella sua autobiografia Deafness:

Mia madre stava quasi tutto il giorno accanto a me e io capivo tutto quello che diceva. Perché no? senza saperlo, per tutta la vita avevo letto le sue labbra. Quando parlava mi sembrava di udire la sua voce. Questa illusione rimase anche dopo che scopersi che era un’illusione. Mio padre, mio cugino, tutti quelli che conoscevo conservarono per me le loro voci fantasma.

Wright comprende il rapporto strettissimo che lega la sua sordità alla memoria dei suoni, il giorno in cui una mano oscura per la prima volta la vista del labiale «Improvvisamente, e per sempre, compresi che se non vedevo non potevo sentire».

Per decenni le bambine e i bambini sordi sono stati costretti a pratiche di rieducazione per articolare parole di senso compiuto. Nell’affermazione di questa corrente pedagogica si radicalizza l’esclusione dei sordi sin dalla nascita, i “sordi profondi”, privi di qualsiasi tipo di contatto con il mondo dei suoni e della possibilità di evocare “voci visive”.

In uno stralcio di documentario dell’Istituto Luce (1950), Sordomute che “sentono e parlano”, vediamo queste tecniche in azione. Una suora davanti a uno specchio insegna a un bambino a imitare il movimento delle sue labbra. Un gruppo di bambine segue le note e ripete in coro mentre una di queste suona il flauto:

ogni zampillare del suono pare negato alle loro labbra, su cui a vicenda esse leggono il disegno di ciò che vogliono dirsi [...] risuonatori più perfezionati educano questa facoltà di ricostruire le voci nello spazio donde giungono, poi di ricrearle esse stesse con le loro voci gravi. [...] Uno specchio insegna la corrispondenza tra moti delle labbra e sillabe.

Tra anni Sessanta e Settanta, una serie di esperienze pionieristiche proposte per lo più da genitori e docenti, avvia il superamento dei contesti separati di insegnamento. Con la legge n.517 del 4 agosto 1977 si afferma un nuovo paradigma basato sul concetto di integrazione, una strada affatto lineare e rassicurante, ma che, tuttavia, appare come l’unica eticamente percorribile.

I cambiamenti profondi di sensibilità e approccio passano attraverso piccoli gesti di apertura. Narrazioni e stigmi vengono smontati anche grazie a un gioco di rimbalzi e amplificazioni mediatiche.

Nel gennaio 1989 un episodio di Star Trek Next Generation intitolato Loud as a Whisper, l’attore sordo Howie Seago interpreta il personaggio di Riva, un mediatore di pace proveniente dal pianeta Ramatis III e affetto da sordità. Per concludere i negoziati di pace, Riva comunica attraverso un coro di tre persone parlanti e, dopo la loro uccisione, arriva a insegnare la lingua dei segni alle fazioni nemiche.

Ma lo script originariamente non prevedeva questo finale; in un’intervista Seago racconta la trama di partenza in cui Riva imparava a parlare nottetempo dopo aver rotto il suo traduttore meccanico:

mi chiedevano di indossare una sorta di copricapo e di comunicare con quello [...] finché per caso lo toglievo e si rompeva e non potevo più comunicare. Così, durante la notte mi insegnavano a parlare e da un giorno all'altro riuscivo a parlare, questa era la trama. E io dissi: "No, non posso farlo!". Perché avevo ben presente la mia educazione e tutti i bambini che affrontano tutte queste lotte per imparare a parlare e solo pochissime persone sorde imparano a farlo chiaramente. È molto raro. Non volevo dare alle persone la falsa idea che i bambini possano imparare a parlare facilmente da un giorno all'altro.

In Italia per ottenere un riconoscimento formale la LIS ha dovuto aspettare il 19 maggio 2021 con l’Art. 34-ter del cosiddetto Decreto Sostegni che per la prima volta ne garantisce la legittimità.

Siamo lontani dal riconoscere pezzi di storia del nostro paese come questo perché chiamano in causa l'identità, e «il terreno dell’identità è sdrucciolevole», a parlare è Luca Des Dorides, storico presso Istituto Statale Sordi di Roma:

Il Congresso di Milano non è semplicemente il Congresso di Milano, è il simbolo di una oppressione alla quale i sordi si sono ribellati nella seconda metà del Novecento. L’oppressione dei sordi è stata un passaggio, una realtà, ma non possiamo isolare il discorso sulla sordità, sugli istituti e sull’oppressione, era molto di più.

La sordità è un insieme complesso di esperienze e percorsi che spesso racchiude vissuti anche molto diversi tra loro. Ha a che fare con il nostro modo di costruire le forme di marginalità in maniera statica e polarizzata e a non vederne la natura mutevole e culturale.

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