Vi sono processi che per loro natura mettono a nudo il fondo di una società, il significato, di un’intera epoca storica. [...] Il processo del Vajont è per conto suo anzitutto un discorso sulle responsabilità della scienza, della tecnica e della burocrazia, nella protezione degli interessi sociali e politici della classe dirigente
Si può muovere dall'arringa di Sandro Canestrini, avvocato di parte civile nel processo sul Vajont, per evitare che un disastro evitabile come quello di cui in questa settimana ricorrono i 60 anni, venga naturalizzato e ridotto a una data scolorita nella memoria nazionale. Un errore, persino uno sfortunato incidente. Per far questo lo si deve leggere assumendo la politicità della scienza e della tecnica, i nodi che le stringono al potere demolendone l’apparenza di neutralità. Il disastro del Vajont, quel “genocidio di poveri” che dette il titolo all’arringa pronunciata nel 1969 da Canestrini, va osservato in una dimensione di cause e responsabilità molto più ampia, che tiene dentro l’idea stessa di progresso, da intendere come “sempre a favore di qualcuno e a danno di qualcun altro”.
È quello che fa brillantemente Marco Armiero in un saggio appena uscito per Einaudi, La tragedia del Vajont. Ecologia politica di un disastro. (qui l'intervista con Armiero a cura di Serenella Iovino)
Il Vajont è una storia cruciale per comprendere la storia ambientale e politica dell’Italia contemporanea. Il 9 ottobre 1963 duemila persone rimasero uccise sulle montagne del Bellunese, travolte dall’onda di acqua e fango sollevata da una gigantesca frana precipitata nel bacino ai piedi del monte Toc.
Lo fa con le lenti dello storico dell’ambiente, collocando l’evento in una vasta cornice, leggendolo come un conflitto anzitutto sociale e territoriale, espressione del modello dominante di relazioni tra uomo e natura e tra le stesse comunità di uomini: quelle dei centri e quelle delle periferie, quelle dei capitani di industria del capitalismo idroelettrico e quelle di montanari, poveri e marginali, sacrificati al prevalente fine di fare enormi profitti mascherato con l’interesse pubblico (rappresentato in tal caso dalla SADE, la società privata che realizzò l’opera, incorporata da Montedison dopo la nota nazionalizzazione di Enel del 1962).
Un sistema in cui una valle può essere interamente posta al servizio di pochi centri urbani, in cui le trame della subalternità possono fare di un intero bacino un’enorme macchina idraulica. Un sistema di produzione centralizzata dell’energia, tipico della modernità e della sua lotta contro la diffusione del potere. Ma soprattutto, nel caso italiano, la corsa novecentesca a conquistare la pietra filosofale di un’Italia povera di combustibili fossili: l’energia idroelettrica, nelle mani non di alchimisti ma di ambiziosi ingegneri, sempre ciecamente ottimisti, come nel caso della Diga del Vajont, di fronte a ogni dubbio sollevato dalle relazioni tecniche e dai saperi diffusi sul territorio, tra le preoccupazioni degli abitanti dei paesi limitrofi, che conoscevano bene il Monte Toc. Operai valligiani che presentando i propri timori ai dirigenti riportavano quanto avevano osservato: muri lesionati, frane frequenti, alberi inclinati. E ricevevano sempre un’unica risposta: “Voi siete montanari, cosa volete capire?”.
Si tratta della cornice del Wasteocene, il termine inglese coniato dallo stesso Armiero in un suo altro importante saggio, che viene opposta all’era geologica dell’Antropocene. Traducibile con l’era degli scarti, l’epoca che produce rifiuti (waste) in tutte le sue forme, che sono anche quelle di intere comunità, di grandi zone di sacrificio, nettamente separate da quelle in cui proliferano le élite. Gli inferni di cui i paradisi per pochi hanno sempre bisogno. Questa differenziazione di responsabilità rispetto all’imputazione delle responsabilità della crisi ecologica e sociale che stiamo vivendo è opera quanto mai necessaria. Se l’Antropocene individua come responsabile un’umanità generica, è chiaro che questa soluzione stride con i casi concreti, stride con i quasi 2000 morti di Longarone nel disastro del Vajont, con le morti e le malattie di Civitavecchia dovute alle sue centrali termoelettriche, con la Cancer alley statunitense, il “corridoio del cancro” che unisce New Orleans a Baton Rouge, devastato dal settore petrolchimico e prevalentemente abitato da comunità afroamericane. In tutti questi casi, per riprendere le conclusioni di Armiero, “non ci sono dei generici umani che abusano della natura, ma un certo modo di organizzare le relazioni socio-ecologiche che decide chi e che cosa sia sacrificabile in nome del profitto”.
Il processo si concluse prevedibilmente con una sentenza ingiusta in Cassazione, espressione di un ordinamento “spietato con il piccolo furto e di manica larga con gli omicidi colposi”. Ma tra i personaggi che si muovono in queste pagine certo brilla Tina Merlin, cronista bellunese dell’Unità, denunciata dalla SADE nel 1959 con l’accusa di aver turbato l’ordine pubblico per aver dato voce e spazio alle preoccupazioni delle comunità della valle. Una causa poi vinta ma con il rimorso, espresso a posteriori, di non averlo forse, l’ordine pubblico, turbato abbastanza. Quindi del suo esempio resta il tentativo di politicizzazione, condotto apertamente anche da questo libro, di una vicenda che è inevitabilmente politica. Infatti “quel paesaggio fatto di turbine e kilowattora era già un paesaggio politico, frutto di stratificazioni di potere e di relazioni di forza che ne avevano deciso il destino”. Nel dar voce alle vittime subalterne si ribadisce la politicizzazione della questione socio-ecologica e possiamo così ricordare a noi stessi che l’ecologia, sia come campo di ricerca che come campo di azione, è sempre, e non potrebbe essere altrimenti, politica.
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