Anniversari e Ricorrenze

100 Giulio Bollati!

Illustrazione di Aurora Spada, 2024, studentessa del Liceo artistico Volta di Pavia. Tecnica mista

Illustrazione di Aurora Spada, 2024, studentessa del Liceo artistico Volta di Pavia. Tecnica mista

Parlare di Giulio Bollati, alla fine, sembra ridursi a girare intorno a un libro: L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (Einaudi).
Non è così, non foss’altro perché quel libro è sì il risultato di un percorso, ma anche la traccia sotterranea di un progetto culturale.

Propongo uno scavo volto a cogliere le molte linee che rinviano a quel progetto e sul perché ancora oggi valga la pena rifletterci.

In una delle sue Scorciatoie, Umberto Saba si chiede: «Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuta in tutta la sua storia – da Roma a oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, […]. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli».

Potrebbe essere una buona sintesi, o almeno un ingresso produttivo per cercare di affrontare la questione di Giulio Bollati, di cui il 27 marzo 2024 corre il centenario della nascita.

Il testo più noto di Bollati l’Italiano, in un qualche modo discende implicitamente da quelle note.

L'italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione

"L'italiano" di Bollati è un testo che indaga un processo storico utilizzando gli ambiti più lontani, dalla ritrattistica pittorica a quella fotografica, dalla retorica all'estetica - in cui si definisce l'immagine di una società che è anche la costruzione di un'identità culturale.

Quando si parla de L’italiano dobbiamo distinguere tra due moduli.
Il primo riguarda la metafisica; il secondo l’indagine culturale. Chiamo italianologia la disciplina afferente al primo modulo; storia sociale dell’idea di Italiano quella afferente al secondo.

L’italianologia è una disciplina che ha creato l’Italiano dietro il falso obiettivo di descriverlo. Elemento essenziale dell’italianologia è la retorica – spesso lamentosa, impermalita e accigliata – che attraversa tutta la riflessione sull’“Italiano” e il cui effetto è creare e radicare una convinzione.

Una retorica che si nutre di apparente ironia, falsa autoironia, supponenza, rancore contro tutto ciò che non è immediatamente la propria soddisfazione, la difesa del proprio “particolare”.

L’effetto di questa retorica – come tutte le retoriche – è quello di indicare i rimedi. Il rimedio è l’indifferenza. Noi siamo un paese che non sceglie, che posto di fronte alle scelte drammatiche, rinvia, scantona, apparentemente in nome di un senso di responsabilità, in realtà perché scegliere implica credere in qualcosa e abbandonare qualcos’altro. In una parola: rischiare.

Qui nasce l’antipolitica. Non origina dalla delusione, bensì dal “non decidere” e che è la conseguenza di una convinzione: se costretti a decidere, meglio seguire la corrente.

Dunque, quando si parla di identità italiana come costruzione di una retorica, si evoca un doppio registro: da una parte difesa delle cose proprie e dall’altra antipolitica, intesa come indisponibilità a riflettere in nome dell’interesse generale.

L’antipolitica non è la rivelazione di un malessere a cui occorre trovare dei rimedi. È un segmento strutturale dell'identità collettiva di una società che ha avuto una storia e che ha definito sé stessa in base alle mancanze che nel tempo diventano delle costanti. È questo l’asse intorno a cui ragiona Giulio Bollati.

Ma nel momento in cui lo fa, per non cadere vittima della macchina mitologica, della forza magnetica propria dell’italianologia, deve applicare un’analisi sociale di storia delle idee scegliendo vari vettori (due, essenzialmente: la letteratura - o meglio la letteratura civile - e la rappresentazione iconografica. Su tutte, la fotografia).

Memorie minime
Memorie minime Di Giulio Bollati;

"Memorie minime" raccoglie otto brevi prose – minime, appunto – che Giulio Bollati ha lasciato dietro di sé, quasi perdute, che sono state raccolte dopo la sua morte, pubblicate con una prefazione di Claudio Magris nel 2001 e che vengono riproposte oggi in questa nuova edizione.

Per dire cosa? Che tutto non è il risultato accidentale di un percorso.
Ha una storia, che deve attingere anche all’italianologia, ma che non è spiegata da quella.

Un doppio processo intellettuale che è al centro della riflessione dei risorgimentali a partire da un testo (che Giulio Bollati non a caso teneva tra i suoi libri): Storia delle repubbliche in Italia nell’età di mezzo (composto da Sismondi tra il 1808 e il 1810) e in particolare i capitoli 126 e 127, dove Sismondi racconta la crisi e la decadenza italiana nel Cinquecento per poi chiedersi come e per quali vie sia pensabile una ripresa.

Fra i risorgimentali, quelle pagine hanno costruito la consapevolezza che essere italiani non corrispondesse a un’essenza, ma a una storia, fatta di crisi e di successi, di capacità e di scelte.

E, alla fine, fatta di modelli, come piaceva dire a Ruggiero Romano (la cui figura, espulsa dalla discussione pubblica in Italia da almeno trent’anni, avrebbe ancora cose da dire a chi volesse riaprire alcune sue pagine).

Prima conclusione, dunque: quella dell’Italiano è una figura costruita nel tempo. Bollati ha avuto il merito, tra gli anni’ 60 e anni ’70, di rompere l’“incantesimo” dell’“italianità” e di consegnarci con il suo L’Italiano un percorso riflessivo capace di generare indagine.

Quelle pagine costituiscono un segnalibro, indicano un modo di ragionare che chiede, prima di tutto, di uscire dal mito.
Un mito che è stato diffuso in molti modi: nella retorica letteraria, nel costante piagnisteo sulla “nazione proletaria”, nella comicità, nel teatro e soprattutto nel cinema italiano, in breve nella “Commedia all’italiana”, forse la macchina più potente e pervasiva nel distribuire il mito dell’italiano, in tutte le sue manifestazioni, compresa l’antipolitica.

Tuttavia, se noi seriamente volessimo indagare l’operatività professionale di Giulio Bollati, sbaglieremmo a confinarlo nelle pagine che lo hanno reso un intellettuale pubblico. Dovremmo invece scavare nel disegno culturale cui quelle pagine alludono, ma che non svelano completamente.

Illustrazione di Melissa D'Assisi, 2024, studentessa del Liceo artistico Volta di Pavia. Tecnica mista

L'invenzione dell'Italia moderna. Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima dell'Unità

L'analisi acuta di Giulio Bollati, che scandaglia i grandi autori italiani di Sette e Ottocento per ricavare quel «carattere nazionale» del quale ancora siamo figli, è oggi più attuale che mai. La peculiarità italiana, l'inadeguatezza della nostra classe intellettuale, è ancora evidente.

E qui sta un secondo blocco di questioni che non riguardano il Giulio Bollati scrittore o intellettuale pubblico, ma il Giulio Bollati operatore culturale e - nello specifico - editore.

In questo secondo capitolo non sta il suo curriculum di studioso, ma la sua visione di cultura editoriale, situata essenzialmente in due luoghi non distanti l’uno dall’altro: il primo, presso la sede di Giulio Einaudi editore, in Via Biancamano a Torino. Il secondo nella stessa città ma in Corso Vittorio Emanuele, presso la Bollati Boringhieri editore che, a partire dal 1987 e fino alla morte, diverrà «casa sua».

Per comprendere quel doppio polo si potrebbe confrontare il complesso delle operazioni editoriali che caratterizzano la lunga permanenza di Bollati presso Einaudi (sostanzialmente dal 1949 fino al 1977) e poi l’esperienza di Bollati Boringhieri. Vi troveremmo delle analogie e forse delle storie parallele in termini di idea di libro, di promozione di collana, di temi che attraversano il catalogo editoriale.

Per dare una sintesi. Einaudi Editore:  “Nuovo Politecnico” la collana che ospita e propone saggistica di avanguardia per il rinnovamento culturale dell’Italia del secondo sviluppo industriale, poi “Piccola Biblioteca Einaudi” che propone la saggistica di formazione dei nuovi intellettuali nella società di massa, ma anche il recupero complessivo del catalogo attraverso “Einaudi Reprint”, la collana avviata nei primi anni ’70 per proporre i classici contemporanei delle scienze umane e sociali, ma anche l’avvio delle grandi opere, per tutte la Storia d’Italia Einaudi.

Bollati Boringhieri: “Temi”, collana che allude a una rivisitazione di “Nuovo politecnico” e in parte PBE; la “Universale Bollati Boringhieri”, soprattutto nella sezione “Età moderna”, dove sono proposti autori e opere che hanno fatto il pensiero critico moderno in sociologia, storia economica e antropologia.

Poi “Nuova cultura”, la collana che riprende temi e autori in controluce rispetto alla Biblioteca storica di Einaudi, ma anche la collana “Varianti” che non è proprio una collana di letteratura, ma di scrittura letteraria in cui si sovrappongono e coabitano sperimentazione, critica letteraria, scrittura sperimentale. Ma anche “Saggi”, collana già esistente in Boringhieri ma che, a partire dal 1987, si rivolge più alla storiografia, alle dottrine economiche, all’antropologia, alla Culture History.

Per questo intercetta un autore come Zygmunt Bauman (La decadenza degli Intellettuali esce per Bollati Boringhieri) ma anche come Edward Said (la prima traduzione di Orientalismo la fa Bollati Boringhieri, quando Said in Italia non lo conosce letteralmente nessuno). Lo stesso vale per James Clifford in un tempo in cui i “Diaspora Studies” sono un ambito di ricerca semplicemente sconosciuto in Italia

Un’esperienza che in parte sembra concorrere con quella della “vecchia casa” einaudiana. Immagine vera solo in parte e che risulta incomprensibile se non prendiamo in considerazione una terza esperienza editoriale che Bollati vive nel tempo compreso tra la sua uscita da Einaudi nel 1979 e il suo rientro, nel 1983 prima di approdare a Boringhieri all’inizio del 1987.

Quell’esperienza editoriale non si consuma a Torino, ma a Milano, e corrisponde non solo a un luogo ma anche a una stagione culturale. Il luogo è la sede de il Saggiatore, dove Bollati svolge il ruolo di direttore editoriale tra il 1981 e il 1983 e che, per certi aspetti, segna una forte discontinuità non solo rispetto alla precedente esperienza editoriale in Einaudi, ma anche per il laboratorio generazionale di autori, temi, progetti e discipline che propone. Una vicenda editoriale e di progetto cui Irene Piazzoni nel suo libro Il Novecento dei libri (Carocci)  dedica giustamente attenzione.

Il Novecento dei libri. Una storia dell'editoria in Italia

I libri progettati e messi in commercio come diapason della vita culturale di una comunità nazionale: seguendo questa suggestione, il volume ripercorre, fra tornanti politici, guerre, passioni ideologiche, stagioni filosofiche, orientamenti del gusto, tradizione, modernità e “postmodernità”, la storia dell’editoria italiana nel Novecento.

Il Saggiatore di quegli anni è molte cose, per certi aspetti in continuità con la casa editrice che aveva pensato Alberto Mondadori, ma anche è il profilo di una generazione di giovani intellettuali (filosofi, economisti, antropologi) che politicamente stanno a sinistra ma che nella sinistra italiana si sentono stretti. Intellettuali che hanno un gran bisogno di aria e che per questo, similmente a chi negli anni ’30, negli anni del regime fascista, per sopravvivere andava a cercare idee e suggestioni al di là dell’Atlantico, provano ad abbandonare il codice culturale continentale che ha caratterizzato la cultura italiana del secondo dopoguerra e di nuovo vanno a cercare idee, autori, temi nella cultura radicale americana.

Quei giovani che hanno poco più di trent’anni sono Salvatore Veca, Marco Mondadori e Giulio Giorello, portano in Italia John Rawls, rileggono un nome fino ad allora poco noto in Italia – Isaiah Berlin - vanno alla scoperta di altri classici (John Stuart Mill) Rileggono, che siano d’accordo o no, Carl Schmitt, Schumpeter. Tornano su Claude Lévi-Strauss. Ripensano la storiografia con Furet e soprattutto con Geremek, Thompson, Lewin, David S. Landes; hanno bisogno di immergersi in un bagno di filosofia che interroga le scienze sociali assieme a Piero Rossi. Nello stesso tempo, escono alcuni testi che connoteranno, appunto, il marchio. Di quegli anni sono infatti Utilitarismo e oltre (1984) a cura di Amartya Sen e Bernard Williams, Scritti filosofici (1985) di Imre Lakatos, Questioni mortali (1986) di Thomas Nagel.

In breve, i riferimenti sono anglosassoni e non più solo (o prevalentemente) francofoni. Ma anche quando sono francofoni valorizzano altre linee di ricerca che hanno il primo spunto nella riflessione di Karl Polanyi (qui è fondamentale un intellettuale curioso come Alfredo Salsano che, in quegli anni, lavora gomito a gomito con Bollati, mentre sta chiudendo la sua collaborazione alla segreteria dell’Enciclopedia Einaudi diretta da Ruggiero Romano). È Salsano a portare in Italia la prima generazione di antiutilitaristi in economia. Ovvero Alain Caillé, Jacques Godbout.  

Anti-utilitarismo per questa prima generazione non è costruire un sistema di fede (che è invece quello proposto da Latouche). Vuol dire piuttosto riprendere in mano il laboratorio inaugurato mezzo secolo prima da Marcel Mauss con il suo Saggio sul dono e riconsiderare il linguaggio delle scienze sociali ripensando criticamente Braudel.

Insieme anche la riscoperta di un’indagine sulle culture religiose dove è essenziale il recupero del laboratorio della vecchia collana “viola” di Pavese e De Martino.

In quegli stessi anni Bollati dimostra varie “insofferenze”. Una, soprattutto, è in linea con le sue riflessioni sull’Italiano: quella di veder rinascere una cultura di destra neoconservatrice, spesso mascherata o paludata di snobismo cui opporre un’altra editoria in cui contano nuovi percorsi di indagine, ma soprattutto cui deve soccorrere una nuova professionalità.

Un’impresa in atto che coglie non nella “vecchia casa” (ovvero dentro) Einaudi, ma nel progetto proposto da Adelphi come concorrente. Resta famosa una lettera aperta che nell’aprile 1989 scrive a Pietro Citati, rimproverandogli un atteggiamento censorio tipico della nuova inquisizione che si propone come arbitro e padrone della correttezza e perciò detentrice del vero.

È in quel clima che Bollati a partire dal 1985 inizia a lavorare, assieme a Mario Lavagetto, al progetto di una scuola per editori, mirando a costruire una nuova leva di professionisti che non seguano più le strade formative proprie della sua generazione (o degli intellettuali espressione di “pezzi” di accademia, o figure professionali della comunicazione) e mettendo invece al centro il tema della costruzione di opere.

Il progetto si articola in due settori distinti: l’organizzazione di un Archivio storico dell’editoria italiana e la costruzione della Scuola di editoria. Mi concentro sul secondo.

Il presupposto è prendere atto di una crisi. Per Bollati occorre ricostruire ex novo un’editoria di cultura, ripensare un’editoria scolastica, costruire un’editoria industriale.
Il primo dato è la crisi dei quadri editoriali. “Finora” – scrive Bollati – “la formazione dei quadri editoriali avveniva in modo artigianale per trasmissione pratica dai vecchi ai giovani. Il meccanismo da qualche anno non funziona più o funziona in modo casuale e comunque insufficiente”.

Quella formazione riguarda competenze che riguardano la scelta dei testi, ma anche competenze economiche (budget, conti economici), conoscenze tecnologiche, di marketing e distribuzione, di pubblicità e promozione. Preoccupandosi inoltre di formare figure e competenze in grado di valutare i risultati, la ricezione dei testi, la sociologia del libro. Senza tralasciare una conoscenza della storia del libro, ovvero: storia della grafica editoriale, storia della tipografia…

In breve, il libro come risultato di molte competenze, non solo relative ai contenuti ma anche alla filiera di produzione e distribuzione.
Perché era così importante questo profilo?

Bollati lo spiega in un’intervista nel 1991. Tra le risposte, ne scelgo due.

La prima è quella che Bollati dà alla domanda se “Nuovo Politecnico”, la collana einaudiana che aveva costruito, fosse connotata dal tentativo di fondere cultura umanistica e cultura scientifica. Secondo Bollati non era questo l’intento:

“‘Nuovo Politecnico’ – spiega - nasceva dall’esigenza di dare risposte rapide, magari soltanto intuitive o ipotetiche, purché fondate e intelligenti, alle domande che i tempi e la società in rapida evoluzione ponevano. Saggi d’intervento, libri scritti ‘in maniche di camicia’ ma con ipotesi forti, tentativi di porre le domande giuste e di azzardare le prime risposte, dovunque, in qualsiasi ambito; e rivolgendoci sempre a quel lettore ideale, enciclopedico, diciamo pure utopico, per il quale noi abbiamo sempre lavorato”.

La seconda domanda chiedeva se la formula “Nuovo Politecnico” fosse ancora proponibile negli anni ’90. La risposta di Bollati:

«Io cerco di fare lo stesso tipo di libro, magari insistendo su discipline più ‘urgenti’, come l’economia e la filosofia. Oggi più che mai, nella situazione generale di disorientamento in cui ci troviamo, il compito dell’editore mi pare debba essere quello di mettere a punto strumenti che ci permettano di capire la realtà, di porci domande e di tentare risposte.

Il movimento delle cose è più avanti della cultura che dovrebbe interpretarlo; occorre colmare questo vuoto, perché l’idea di un’umanità che avanza alla cieca è terribile… Non vedo molti editori disposti ad assumersi questo compito: ma ce ne sono, basterà ricordare tra i più coerenti, anche se di orientamento diverso, Feltrinelli o Il Mulino. Ma la sensazione prevalente è che in un mondo culturale completamente deresponsabilizzato - e felice di esserlo in accordo con le tendenze filosofiche del momento – chi coltiva questi interessi e queste ambizioni si trovi in una condizione di semiclandestinità… Riunire dieci, quindici persone, anche di formazione diversa, attorno a un progetto condiviso, procura la felicità che dovettero provare i primi frequentatori delle catacombe».

È così diverso il nostro tempo presente?

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