Quando vogliono raccontare della tensione insostenibile che si avverte prima di fare qualcosa che si è pianificato e che – all’improvviso – appare troppo difficile da portare a compimento, gli inglesi usano un'espressione che si dice risalga alla Grande Guerra, quando i soldati al fronte tornavano nelle retrovie perché avevano troppo freddo ai piedi per continuare a combattere.
Da allora, l'espressione to have cold feet è entrata nell'uso comune.
Il pomeriggio del 30 gennaio 1969, a Londra, al civico 3 di Savile Row, non c’erano calzettoni di lana che potessero riscaldare otto cold feet freddi come il ghiaccio.
C’erano pochi gradi sopra lo zero – cinque, a sentire le cronache dell’epoca – e tirava un vento teso e sferzante.
A contar bene i piedi erano dieci, se ci mettiamo anche quelli dell’organista Billy Preston.
Savile Row, oltre che sede dell’etichetta discografica Apple, è nota come una delle vie più eleganti di Londra, rifugio delle migliori sartorie che servono la Corona britannica.
Ma sotto i pantaloni a zampa d’elefante che ciascuno dei presenti indossava, c’erano almeno due paia di dozzinali collant.
Calze da donna rivestivano anche i microfoni per proteggerli dai fruscii che il vento inevitabilmente avrebbe stimolato.
Avvolto in uno sgargiante impermeabile cerato di colore rosso, Ringo, il cui parere era molto ascoltato dagli altri, a un certo punto sbottò: “… tutto questo non ha senso!”.
Paul fece spallucce regolando i suoni del suo proverbiale basso Höfner a violino, mentre George, accordava la Telecaster nera scuotendo la testa, decisamente contrario all’idea di suonare in quelle condizioni.
John, infagottato in una pelliccia che per l’occasione gli aveva prestato Yoko, muoveva su e giù le mani sulla tastiera della sua Epiphone Casino, più per scaldarle che per ripassare le melodie.
“Le mani sono troppo fredde per suonare gli accordi”, farfugliò ad un tratto.
La condensa dovuta alla temperatura rigida sembrava incorniciare le poche frasi pronunciate dai ragazzi, trasformandole in altrettanti balloon da fumetto.
Tre piani più in basso, qualche passante era incuriosito dai suoni sconnessi che parevano piovere da quel tetto, lassù in alto.
Un po’ di teste si voltarono verso l’alto, perplesse.
Al centro di un cerchio immaginario che partiva da quel tetto in Savile Row e avrebbe irradiato un’eco lunghissima nel tempo e nello spazio, John rivolse agli altri uno dei suoi sorrisi enigmatici.
“Oh, fuck it. Facciamolo”.
Nel 1969 i Beatles erano la più grande pop band che fosse mai esistita.
All’apice di una vicenda artistica e commerciale che li aveva portati, nel giro di otto anni a diventare “più famosi di Gesù Cristo”, come avrebbe dichiarato Lennon in una celebre intervista, avevano venduto più di 300 milioni di copie dei loro album, suonando nelle arene più prestigiose del mondo e venendo nominati baronetti da Her Majesty The Queen in persona.
Avevano il mondo ai loro piedi.
Ed erano finiti.
Nel pieno controllo dei propri mezzi espressivi, i quattro ragazzi di Liverpool potevano finalmente fare l’arte libera che avevano sempre sognato e l’album uscito pochi mesi prima, il 22 novembre del 1968, era lì a testimoniarlo.
The Beatles – o, come sarebbe stato sempre conosciuto dai fan, il White album – era uno schermo bianco sul quale ogni ascoltatore avrebbe potuto proiettare un film personalissimo di emozioni intense: l'amore, l'amicizia, la paura. Ciascuno poteva inseguire le forme, libere come farfalle, che si susseguivano senza soluzione di continuità lungo le quattro facciate di un album il cui pregio maggiore resta proprio quella inaudita, meravigliosa infedeltà a sé stesso.
Tecnologia d’avanguardia unita ad attrezzature di studio di registrazione d’epoca hanno fatto in modo di preservare l’autenticità e l’integrità delle registrazioni originali analogiche.
Ma in sala era diventato definitivamente chiaro a tutti che i nastri degli Abbey Road Studios stavano registrando con sensibilità di sismografo le ultime scosse telluriche di un terremoto che aveva sconvolto la cultura popolare nel decennio che si avviava a concludersi.
John e Paul erano sempre più spesso ai ferri corti, guidati da una differenza che avevano saputo trasformare in formidabile volano creativo ma che sempre più spesso lasciava code velenose, fra loro e nel gruppo.
George, dal canto suo, aveva mostrato di possedere la stoffa di un compositore che meritava di emanciparsi dall'ombra lunga di quei due giganti.
E Ringo non ne poteva più di fare quello che "always plays it cool": lui era cool, vero. Ma lo sarebbe stato anche da solo.
Edizione speciale in occasione del 50° anniversario del noto album. Nuovi Mix Stereo realizzati da Giles Martin dai nastri multitraccia originali.
Ci sarà spazio per un altro capolavoro, nel breve futuro dei Beatles: Abbey Road sarà registrato nel settembre di quello stesso anno.
Ma adesso, a gennaio, nella fredda aria londinese è ancora tempo di live. Ancora una volta, con sentimento.
Come a sancire la chiusura di un cerchio, omaggiando l’epica del Cavern Club di Liverpool nel quale avevano mosso i primi passi e poi dei club di Amburgo nei quali i quattro erano diventati grandi, sette anni prima, ad aprire il concerto è Get Back. “Get back to where you once belonged". Torna al posto cui appartenevi.
Un applauso perfino troppo educato forse ricorda a Paul la compostezza di una tribuna da cricket. Macca si avvicina al microfono e farfuglia qualcosa a proposito del campione della nazionale Ted Dexter.
John, da par suo, con la mente è già oltreoceano e si è fatto antenna per le rivoluzioni che si annunciano e su quelle che verranno.
Esclama: «Ci è giunta una richiesta da Martin Luther!», poi la band ci dà dentro con una seconda versione di Get Back.
La scaletta inanella hits che mescolano le “caramelle pop” del primo periodo a pezzi più introspettivi e articolati della fase successiva, quella della grande (e ancora inspiegabile) maturazione artistica: Don't Let Me Down e I've Got a Feeling fanno salire di qualche grado la temperatura, su quel tetto sul quale nel frattempo si sono radunati cameramen, tecnici, giornalisti.
È un happening libero, che scioglie in una jam consumata fra vecchi amici le tensioni accumulatesi durante i mesi in sala di registrazione.
I Beatles potranno anche sopportarsi a fatica, ormai, ma quando imbracciano gli strumenti tornano a essere i quattro adolescenti di Liverpool che nel fare musica assieme hanno trovato l’antidoto perfetto alle proprie solitudini, alle miserie cui la vita sembrava averli destinati.
One After 909 è uno “schizzo” acquarellato senza troppe premure dai quattro, seguito da un accenno al tradizionale Danny Boy, omaggio ai giorni di quello “skiffle” suonato nei pub che aveva contribuito a definire l’approccio ritmico del quartetto.
Poi un’altra falsa partenza: è Dig a Pony, con John che non ricorda il testo e torna a lamentare il freddo alle mani.
In retrospettiva, sembra che questo concerto finale sia una lunga variazione sul tema delle partenze, che paradossalmente rappresentano sempre anche l’ultima chance per non chiudersi in una forma compiuta.
Ma la forma imperfetta, in musica, è anche sempre una forma aperta, una forma che introduce al possibile, a ciò che si sarebbe potuti diventare, a dispetto di quel che si è.
Non c’è rimpianto, però: chi potrebbe, ragionevolmente, lamentarsi delle scelte fatte, quando quelle scelte convergono oggi, 30 gennaio 1969, verso un tetto oltre il quale non è dato salire?
Imagine le nuvole, allora, al di sopra dei mattoni rossi di Savile Row, oltre la fatica di dover essere i Beatles – la più grande cosa che sia mai successa alla cultura popolare nel Novecento – mentre non si chiederebbe di meglio che continuare ad essere John, Paul, Ringo e George, quattro ragazzi che giocano con le chitarre a inventare la propria storia.
E allora non resta che suonare e celebrare con amore e con rabbia quel che il presente ci offre.
Un ultimo giro di giostra, ragazzi. Il più bello.
Mentre il tecnico Alan Parsons (che intraprenderà poi una fortunata carriera solista negli anni Settanta e Ottanta) cambia i nastri, i Beatles e Billy Preston rendono omaggio alla regina accennando a una God Save the Queen che forse i sarti di Savile Row, qualche piano più in basso, non approverebbero. Seguono seconde versioni di I've Got a Feeling e Don't Let Me Down e – ancora - una terza versione di Get Back.
L’ultimo pezzo che i Beatles mai suoneranno dal vivo.
Arriva anche la polizia, a un certo punto, e i bobbies che intimano ai ragazzi di smetterla non si rendono conto di essere la ciliegina perfetta sopra una torta semplice, gustosa e genuina, che continuerà a lungo a sprigionare il suo profumo negli annali della cultura pop.
Che concerto rock'n'roll sarebbe, infatti, senza il potere costituito che punta i piedi, si mette di traverso e cerca invano di guastarne il successo decretandone invece la spontaneità, la forza, l'energia iconoclasta?
(«I'd like to say thank you on behalf of the group and ourselves and I hope we passed the audition», "Vorrei dire grazie a nome del gruppo e di noi stessi e spero che abbiamo superato l'audizione").
Paul McCartney alla fine del concerto, dopo l'interruzione della Polizia.
Il concerto dei Beatles sul tetto della Apple sarà l'ultima esibizione pubblica dei Beatles. La band inciderà ancora un album, per sciogliersi poi definitivamente nel 1970.
Cosa rimane, oggi, di quell'exploit situazionista, un po' anarchico e molto libero consumatosi su un tetto londinese, cinquantacinque anni fa?
Bè, sicuramente rimangono i piedi freddi - anzi, i cold feet - i cuori caldi, le pellicce, i collant e qualche corda di chitarra.
E poi resta la musica, naturalmente. Quella non finisce mai.
Di
| Edizioni Theoria, 2020Di
| Mondadori, 2021Di
| Baldini + Castoldi, 2022Di
| Laterza, 2015Di
| Taschen, 2022Ti potrebbero interessare
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