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Giuseppe Gioachino Belli e la sua lingua romanesca

Illustrazione digitale di Marco Sabbia, 2023

Illustrazione digitale di Marco Sabbia, 2023

Quando Giuseppe Gioachino Belli morì, il 21 dicembre 1863 (era nato nel 1791), la sua attività di poeta in dialetto romanesco era quasi tutta inedita. Pochi amici conoscevano quel suo cantiere di lavoro, mentre l’autore era noto per la produzione colta e giocosa in lingua. Fu dopo la sua morte che si ebbero le edizioni dei sonetti romaneschi, che poi lo consegnarono alla posterità e che lo rendono oggi un classico.

Per entrare nel mondo di Belli e nella sua psicologia, sempre incrinata e minacciata di scissione, è utile partire da quella Introduzione ai sonetti che Belli scrisse in prima stesura nel 1831. In essa il poeta dice innanzi tutto che egli ha inteso «lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma». Mettendo poi le mani avanti e contrapponendo la propria irreprensibile vita alle tonalità sordide e canzonatorie dei testi: «Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento».

I sonetti. Ediz. critica
I sonetti. Ediz. critica Di Gioachino Belli;

Belli tenne sempre nascosti i suoi Sonetti, che mostrò e recitò solo ad amici fidati. Dei 23 pubblicati durante la sua vita, solo uno uscì con il suo consenso: un omaggio in versi all'attrice Amalia Bettini che apparve nel 1835 su una rivista teatrale milanese.

Più oltre l’autore scruta le oscure profondità di quella sua materia: «Io quì ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla; e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge».

Dunque Belli presenta la propria opera come un’immersione in un ordine di realtà esistente, non necessariamente condiviso e anzi esplicitamente allontanato da sé. Lui presta l’abilità tecnica e costruttiva (scrive in romanesco soltanto sonetti, in tutto 2279, con una vena abbondante, concentrata in alcuni ben precisi periodi) a una serie di personaggi bassi, i quali si esprimono secondo la loro visuale, che non coincide con quella dell’autore, ma che l’autore riproduce per immedesimazione quasi veristica (Pasolini parlò nel 1963 di un «rapporto mimetico col popolo»). Le voci sono innumerevoli: la loro specialità è ridurre l’alto e il profondo a dimensioni popolari e risibili. Anche Dio, anche i santi, anche la Madonna entrano in questo teatro popolare che non risparmia nessuno e che tutto raffigura camuffato da commedia, sia pure dal fondo amaro. Perché le ingiustizie restano e a tratti il dolore del popolo si fa strada, come nei tre sonetti sulla povera madre, che vede morire il figlioletto dopo l’esilio, probabilmente per ragioni politiche, del marito.

La religione, i proverbi, il cibo, il sesso entrano nei sonetti con una forza parodica e giocosa, a tratti disperata, che sembra annichilire ogni attesa, ogni prospettiva più larga. Tutto si riduce al giro di cose, di oggetti, di scherzi e di caricature di un popolino vivacissimo e scoppiettante nella sua soggezione al potere costituito, contro cui usa per lo meno tutta la propria irriverenza. Paradiso e inferno, Dio e i suoi misteri sacri sono continuamente ricondotti all’esperienza concreta e bassa del popolo che parla e che costruisce nei sonetti un’epopea viscerale e orizzontale, senza vera trascendenza, si direbbe. Lo dimostra, credo questo Er Paradiso, con i riferimenti al popolo giudìo, cioè ebraico (il termine «mordivoi» è un’apostrofe esclamativa), e un aldilà raffigurato come una sorta di paese di cuccagna, appunto conteso tra ebrei e cristiani (cito da I sonetti, edizione critica e commentata a cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, 4 voll., Einaudi, Torino 2018):

Er Paradiso

Nò, Rreggina mia bbella, in paradiso
Nun perdi tempo co ggnisun lavoro:
Nun ce trovi antro che vviolini, riso,
E ppandescèlo, ciovè ppane d’oro.

Là, a ddà udjenza ar giudìo, pozz’esse acciso!,
Nun ce metteno er becco antro che lloro;
Come si ttutto-cuanto sto tesoro
Fussi fatto pe un cazzo scirconciso.

Ecco che ddisce sto ggiudìo scontento:
Sopra li leggi vecchi, mordivoi,
Per vita mia! sta tutto el fonnamento.

Ma llui nun zà che Ggesucristo poi
Ner morì fesce un’antro testamento,
E ’r paradiso l’ha llassato a nnoi.

Roma, 23 Nov.e 1832

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Conosci l'autore

Giuseppe Gioachino Belli (Roma 1791-1863) è stato un poeta italiano. La vita Dopo aver studiato al Collegio romano, rimasto presto orfano d’ambedue i genitori, ottenne modesti impieghi privati e pubblici. Intorno al 1810 iniziò la sua carriera letteraria e fondò con altri l’Accademia Tiberina, nel quadro della arretratissima cultura locale, divisa fra sonetteria arcadica e gusto dell’antiquaria. A venticinque anni sposò senza amore una ricca vedova, Maria Conti, dalla quale ebbe un unico figlio, Ciro. Raggiunta una discreta agiatezza, poté dedicarsi con maggiore impegno agli studi e alla poesia. Compì anche numerosi viaggi, a Venezia (1817), a Napoli (1822), a Firenze (1824) e a Milano (1827, 1828, 1829), stabilendo contatti con ambienti culturali più avanzati e scoprendo alcuni testi fondamentali della letteratura sia illuministica che romantica. Seguirono anni di felicità creativa (gli anni dei Sonetti romaneschi) e di timide aperture ideologiche. Nel 1828 si dimise dalla Tiberina e, con un gruppo di amici liberali, aprì in casa sua un gabinetto di lettura; ma dopo la morte della moglie (1837) ripiombò in gravi angustie economiche e morali. I successivi avvenimenti accelerarono il processo d’involuzione: la repubblica mazziniana del 1849 lo sconvolse, spingendolo nella schiera dei più accaniti difensori del trono e dell’altare, sicché quando, nel 1852, fu nominato censore della «morale politica» esercitò la carica con tanto zelo da condannare i melodrammi di Rossini e di Verdi, le tragedie di Shakespeare, le commedie di Scribe. Prima di morire, affidò i manoscritti dei Sonetti romaneschi all’amico monsignor Vincenzo Tizzani, con l’incarico di bruciarli; ma Tizzani li conservò e, dopo la morte del poeta, li consegnò, quasi integralmente, al figlio. I Sonetti sono 2279 e furono composti, per la maggior parte, in due fasi: 1830-37 e 1842-47. Vivente il poeta, ne furono stampati solo 23, ma uno solo col suo consenso (Er padre e La fijja). Un’ampia scelta (786), insieme a poesie in lingua, ne pubblicò il figlio Ciro, ma in un’edizione contraffatta per fini espurgativi (Poesie inedite, 4 voll., 1865-66); seguirono la raccolta, ancora incompleta, a cura di L. Morandi (6 voll., 1886-89), quella integrale, rivista sugli autografi, a cura di G. Vigolo (3 voll., 1952) e infine la raccolta completa curata da P. Gibellini, L. Felici ed E. Ripari (4 voll., 2018). Nell’accostarsi al capolavoro belliano il primo pregiudizio da rimuovere è quello che lo raffigura come una serie di stampe o di acquerelli alla maniera di Pinelli o di Thomas. La parte dei Sonetti che fa grande B. nulla ha in comune con il quadretto di genere, di tanta letteratura dialettale. B. scelse la vita del popolo come soggetto della sua opera, perché in una società, come quella romana del tempo, senza sbocchi culturali, dominata dalla corruzione e dalla ipocrisia, il popolano gli appariva, proprio per il suo stato di emarginazione, l’unico depositario della verità (una verità, com’egli dice, «nuda» e «sfacciata»). Discendere negli intimi recessi di quell’essere spontaneo che era il popolano di Roma significava per il poeta ritrovare l’impatto con la realtà, al di là di ogni mistificazione, e, quindi, scatenare le potenze represse del proprio spirito e della propria fantasia. Ma la discesa non fu mai gioconda e purificatrice, perché il primitivo di B. non ha i caratteri del «buon selvaggio» rousseauiano: è un personaggio condannato a una vita di sensi, di passioni sfrenate, che l’«altro B.», il «probo cittadino» devoto e conformista, non può tranquillamente assolvere. Di qui il doppio processo di attrazione e repulsione che la massa delle manifestazioni plebee ingenerano nell’animo del poeta, risolvendosi artisticamente nella forma dell’ironia e della comicità, la più adatta a rimescolare e oggettivare le insanabili antinomie di una avventura poetica ed esistenziale che non conobbe mai approdi catartici.La scelta del dialetto e il pessimismo belliano La discesa nel personaggio «popolo» comportava naturalmente l’adozione totale della sua parlata, e anche questa operazione fu per B. tutt’altro che indolore. Implicava anzitutto la condanna del lungo esercizio letterario dell’accademico tiberino, il ripudio di una «favella» illustre che B. stesso aveva definito «fradicia per quasi sette secoli di vita». La scelta del romanesco, inoltre, era tutt’altra cosa dalla scelta del meneghino, del veneziano o del napoletano, parlate comuni a tutti gli strati di quelle rispettive società, e quindi capaci di esprimere ogni tipo di contenuti, popolari e borghesi, istintivi o intellettualistici. Il romanesco, per un insieme di ragioni storiche, era invece un idioma esclusivamente subalterno, usato soltanto dalla plebe; sceglierlo significava dunque trasferirsi integralmente nelle strutture mentali e culturali della «turba», la quale è, secondo la stessa etimologia del termine, disordinata, incoerente, instabile. B. come nessun altro scrittore realista italiano, attuò in pieno questo difficile transfert, riuscendo a decifrare, nei Sonetti romaneschi, un’intera realtà, quanto mai varia e contraddittoria, attraverso le sole strutture del popolano. Quale realtà? Quella assurda, anacronistica, di uno stato teocratico in pieno secolo XIX: una piramide che al vertice ha il papa, il vicedio, il despota che «commanna e sse ne frega» (Er papa), che è «ssempre quello», da secoli, perché ne mutano le fattezze esteriori, ma l’anima «passa subbito in corpo ar zuccessore» (Er passa-mano); sotto di lui i cardinali, i prelati corrotti e prepotenti; alla base la plebe, vittima della sopraffazione dei ricchi, rassegnata o ribelle, onesta o ladra, che per dimenticare e dimenticarsi si rifugia in una religione di «smorfie», oppure si stordisce nei piaceri elementari del mangiare, del bere, del sesso. Particolareggiata in una infinità di caratteri e situazioni, questa è la «commedia romana» di B., la quale si dilata ben presto oltre i confini della città, coinvolgendo il destino di tutti gli uomini e il dio stesso che di quel destino è responsabile. Il dio belliano è il terribile tiranno che, dopo aver cacciato nell’inferno gli angeli ribelli, «stese un braccio/longo tremila mijja.../e sserrò er paradiso a ccatenaccio» (L’angeli ribbelli), è il Cristo che sulla croce sparse per i potenti «er zangue» e per i poveri «er ziere» (il siero), sancendo così la spaccatura in due dell’umanità (Li du’ggener’umani). Il confronto tremendo, faccia a faccia, del diseredato con la divinità è il filo conduttore che attraversa l’intera durata del poema belliano. Non di rado però la tensione drammatica si allenta e si aprono allora spazi per il divertimento puro, per l’effusione lirica o per il raccoglimento elegiaco. Sono momenti di tregua che variano, arricchiscono, ma non disperdono la fondamentale epicità dei Sonetti. Quantitativamente superiore a quella in dialetto la produzione poetica in lingua: l’edizione completa, in 3 volumi, è uscita soltanto nel 1975, col titolo Belli italiano. Più interessanti sono l’epistolario (Lettere, 2 voll., 1961; Lettere a Cencia, 2 voll., 1973-74), dove affiora qualche tratto dell’«umor nero» belliano; e lo Zibaldone (pubblicato in minima parte nel 1962), una raccolta di estratti e di indici di opere che documenta la conoscenza di illuministi e romantici italiani e stranieri, nonché un interesse assai vivo per la letteratura realistica, da Boccaccio fino a Berni e ai berneschi.

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