Quando Giuseppe Gioachino Belli morì, il 21 dicembre 1863 (era nato nel 1791), la sua attività di poeta in dialetto romanesco era quasi tutta inedita. Pochi amici conoscevano quel suo cantiere di lavoro, mentre l’autore era noto per la produzione colta e giocosa in lingua. Fu dopo la sua morte che si ebbero le edizioni dei sonetti romaneschi, che poi lo consegnarono alla posterità e che lo rendono oggi un classico.
Per entrare nel mondo di Belli e nella sua psicologia, sempre incrinata e minacciata di scissione, è utile partire da quella Introduzione ai sonetti che Belli scrisse in prima stesura nel 1831. In essa il poeta dice innanzi tutto che egli ha inteso «lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma». Mettendo poi le mani avanti e contrapponendo la propria irreprensibile vita alle tonalità sordide e canzonatorie dei testi: «Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento».
Belli tenne sempre nascosti i suoi Sonetti, che mostrò e recitò solo ad amici fidati. Dei 23 pubblicati durante la sua vita, solo uno uscì con il suo consenso: un omaggio in versi all'attrice Amalia Bettini che apparve nel 1835 su una rivista teatrale milanese.
Più oltre l’autore scruta le oscure profondità di quella sua materia: «Io quì ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla; e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge».
Dunque Belli presenta la propria opera come un’immersione in un ordine di realtà esistente, non necessariamente condiviso e anzi esplicitamente allontanato da sé. Lui presta l’abilità tecnica e costruttiva (scrive in romanesco soltanto sonetti, in tutto 2279, con una vena abbondante, concentrata in alcuni ben precisi periodi) a una serie di personaggi bassi, i quali si esprimono secondo la loro visuale, che non coincide con quella dell’autore, ma che l’autore riproduce per immedesimazione quasi veristica (Pasolini parlò nel 1963 di un «rapporto mimetico col popolo»). Le voci sono innumerevoli: la loro specialità è ridurre l’alto e il profondo a dimensioni popolari e risibili. Anche Dio, anche i santi, anche la Madonna entrano in questo teatro popolare che non risparmia nessuno e che tutto raffigura camuffato da commedia, sia pure dal fondo amaro. Perché le ingiustizie restano e a tratti il dolore del popolo si fa strada, come nei tre sonetti sulla povera madre, che vede morire il figlioletto dopo l’esilio, probabilmente per ragioni politiche, del marito.
La religione, i proverbi, il cibo, il sesso entrano nei sonetti con una forza parodica e giocosa, a tratti disperata, che sembra annichilire ogni attesa, ogni prospettiva più larga. Tutto si riduce al giro di cose, di oggetti, di scherzi e di caricature di un popolino vivacissimo e scoppiettante nella sua soggezione al potere costituito, contro cui usa per lo meno tutta la propria irriverenza. Paradiso e inferno, Dio e i suoi misteri sacri sono continuamente ricondotti all’esperienza concreta e bassa del popolo che parla e che costruisce nei sonetti un’epopea viscerale e orizzontale, senza vera trascendenza, si direbbe. Lo dimostra, credo questo Er Paradiso, con i riferimenti al popolo giudìo, cioè ebraico (il termine «mordivoi» è un’apostrofe esclamativa), e un aldilà raffigurato come una sorta di paese di cuccagna, appunto conteso tra ebrei e cristiani (cito da I sonetti, edizione critica e commentata a cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, 4 voll., Einaudi, Torino 2018):
Er Paradiso
Nò, Rreggina mia bbella, in paradiso
Nun perdi tempo co ggnisun lavoro:
Nun ce trovi antro che vviolini, riso,
E ppandescèlo, ciovè ppane d’oro.
Là, a ddà udjenza ar giudìo, pozz’esse acciso!,
Nun ce metteno er becco antro che lloro;
Come si ttutto-cuanto sto tesoro
Fussi fatto pe un cazzo scirconciso.
Ecco che ddisce sto ggiudìo scontento:
Sopra li leggi vecchi, mordivoi,
Per vita mia! sta tutto el fonnamento.
Ma llui nun zà che Ggesucristo poi
Ner morì fesce un’antro testamento,
E ’r paradiso l’ha llassato a nnoi.
Roma, 23 Nov.e 1832
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