Arrivi e partenze

Il giorno in cui le Brigate Rosse si suicidarono

Con Dolore e furore (pubblicato da Einaudi), Luzzatto aggiunge un tassello fondamentale a una storia che c'è ancora bisogno di studiare e conoscere: quella della lotta armata, degli anni di piombo, di quel brigatismo che si espresse in forme diverse e che, al suo interno, comprese forme spesso irriconducibili le une alle altre. 
Nella vicenda della "colonna degli imprendibili" che mise Genova a ferro e fuoco, e che nell'assassinio dell'operaio e sindacalista comunista Guido Rossa ad opera di un manipolo di brigatisti trovò il suo drammatico apice, c'è molto del paese che l'Italia era in quegli anni, di quel che era stato e di quel che sarebbe diventato.
Soprattutto, leggendo Dolore e furore si capisce come la ferita che le BR aprirono in un tessuto sociale lacerato non sorgesse dal nulla, ma fosse il frutto di storie individuali complesse e figlie del loro tempo, storie che gli studi spesso sacrificano sull'altare di una lettura che deve concentrarsi sul "grande disegno", piuttosto che sui dettagli che lo compongono.
Sergio Luzzatto fa luce, a più di quarant'anni dai fatti narrati, su Rossa, Dura, Fenzi e tutti gli altri protagonisti di una vicenda che è giusto continuare a interrogare, perché parla di tutti noi. 

Guido Rossa durante un'escursione in montagna

L'intervista

L'omicidio di Guido Rossa è il perno attorno al quale la narrazione di sé che le Brigate Rosse stavano cercando di spacciare si sgretola definitivamente.
È quello il momento in cui la classe operaia capisce, senza più possibilità di equivoco, che le BR sono una grossa parte del problema e non una possibile alternativa.
In questa vicenda, Riccardo Dura ha un’importanza determinante. Non solo perché è l’esecutore materiale dell'omicidio, ma perché lo diventa disubbidendo all'ordine di gambizzare Rossa, e decidendo invece di sparagli al cuore.

Avevo 15 anni quel giorno di gennaio del 1979 in cui si diffuse la notizia che le Brigate Rosse avevano ammazzato un operaio sindacalista comunista dell'Italsider.
Nessuno di noi sapeva chi fosse Guido Rossa e, al tempo stesso, chi viveva a Genova in quei giorni ha avuto il sentimento che un punto di non ritorno fosse stato raggiunto.
La figura di Guido Rossa in sé è una figura fascinosa. Il mio libro comincia con una lettera diventata poi famosa, una lettera privata che lui aveva scritto nel 1970 ad un suo compagno di alpinismo, perché era un grande alpinista, Guido Rossa. Nel ’69 - ’70, quindi all'inizio della storia che io ho provato a ricostruire, Guido Rossa era un comunista e si sentiva un rivoluzionario.
Allora la domanda che mi sono posto è: com'è potuto accadere che dieci anni dopo, un altro comunista che si sente rivoluzionario riconosce in Guido Rossa un nemico da abbattere e gli spara al cuore? Guido Rossa da comunista disciplinato, fedele alle istituzioni, comunista democratico, aveva riconosciuto nelle Brigate Rosse l'avversario da fermare perché aveva immaginato - secondo me a ragione - che la soluzione individuata dalle BR non potesse essere la soluzione, non potesse costituire la via italiana al socialismo.


La storia che lei racconta in questo libro l'ha incrociata la prima volta molto tempo fa, quando era un giovanissimo ricercatore a Parigi. Ci racconta quando e dove è stato piantato quel seme?


Il seme è stato piantato in quella che allora era la Bibliothèque Nationale.
A metà degli anni '80 ero poco più che ventenne e studiavo - apparentemente - tutt'altro, cioè i rivoluzionari della Rivoluzione francese sotto la restaurazione.
In biblioteca, ero circondato da alcune figure di "rivoluzionari" italiani degli anni di piombo, da poco conclusi, che avevano trovato rifugio, esilio o latitanza a seconda dei punti di vista, nella Francia della cosiddetta dottrina Mitterrand. La dottrina offriva asilo a quelli che si consideravano esuli politici, anche se in Italia - secondo me a buon diritto - li si considerava piuttosto come rivoluzionari o criminali politici. Studiavo i rivoluzionari del primo Ottocento ma ero circondato da personaggi che si preparavano ad appellarsi alla posterità rispetto a quello che avevano fatto. Ho passato i 40 anni successivi a studiare altro, conservando però nella memoria quell’esperienza. Ero entrato in contatto con questa storia ambientata nella Genova degli anni ’70, senza averla vissuta che da adolescente.

Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse

Nella prospettiva di Sergio Luzzatto, Genova diventa una chiave per interpretare l’Italia degli «anni di piombo». Lo spazio del racconto si allarga, il contesto locale si intreccia con il contesto nazionale e internazionale.

Ripercorrendo la storia del brigatista Riccardo Dura e i suoi anni alla Garaventa - che era una nave riformatorio galleggiante - lei evoca Conrad e il suo "Cuore di tenebra"…

Sì. Da questo punto di vista, quella di Dura è una figura intrigante, perché rappresenta il motore psicologico e narrativo della storia che ho voluto raccontare.
Dura è un mistero: è stato un terrorista perfetto, nella sua interpretazione del ruolo di clandestino - stiamo parlando del capo della cosiddetta “colonna genovese” - e poi, essendo stato ucciso dai carabinieri nella sparatoria di Via Fracchia, non ha prodotto alcuna documentazione giudiziaria. Il carnefice è diventato un martire, insomma, almeno agli occhi di quella che io chiamo posterità simpatizzante … quindi la sfida per me è stata anche una sfida narrativa: come si racconta un terrorista, quando non si riesce ad acchiapparlo?
È come se lo storico si confrontasse con lo stesso problema delle forze dell'ordine dell'epoca e cioè l'imprendibilità del terrorista - fermo restando che il mio è un tentativo di ricostruire una storia collettiva, più che individuale. È un po' un corpo a corpo dello storico (ma anche del narratore) con il suo protagonista: un protagonista forte e appunto “alla Conrad”.
Fra l'altro, prima di entrare nelle Brigate Rosse, Dura aveva navigato a lungo nella bassa forza della gente di mare: è un mozzo che diventa nostromo, e infine capitano.
Mi è sembrata la migliore suggestione letteraria che fosse possibile raccogliere.

Come potremmo dare un'istantanea di Genova a partire dal momento in cui lei inizia a raccontarla, dalla metà cioè degli anni ’60, prima delle vicende che sono al cuore della narrazione vera e propria fino alla vicenda di Guido Rossa e a via Fracchia?

L’elemento cronologico è fondamentale.
Nei tanti libri usciti sugli anni del terrorismo, finora, non si è guardato abbastanza agli anni Sessanta, senza i quali - io credo - non si capisce niente.
Non si capisce niente di quel terreno di cultura delle idee emancipatrici, libertarie, rivoluzionarie che hanno impattato non soltanto nelle fabbriche delle grandi città ma anche sulla chiesa e sulla comunità dei “battezzati mobilitati”, dalla seconda metà degli anni ‘60 in quello che era il movimento conciliare, ma anche sul Partito Comunista, che viveva in quegli anni una condizione “duale”, da un lato partito integrato alla cultura democratica e dall'altro partito che restava per tanti militanti il fulcro di una promessa rivoluzionaria.
Ecco perché in un libro che si chiama “Una storia delle Brigate Rosse”, le Brigate Rosse arrivano a metà del libro e non prima.

Il mio vorrebbe anche essere un invito a ripartire nella storia degli anni di piombo su nuove basi: prima di scrivere una storia generale, bisogna fare la storia delle Brigate Rosse a Milano, a Torino, a Genova, a Roma, perché ciascuna di queste storie, in realtà, è diversa.

Sergio Luzzatto

Noi ci parliamo nei giorni in cui arrivano notizie drammatiche da Israele e Palestina. Giorni in cui, più che mai, viene ribadito con forza il fatto che la politica - anche quando si pensa come guerra – non può prescindere dall’idea che coltiva del proprio territorio. Come agisce lo storico, da questo punto di vista?

Non si può fare storia senza domandarsi come i guerriglieri si muovono sul territorio.
Io ho cercato di capire quale rapporto questi terroristi - che si definivano guerrieri - avessero con la città in cui operavano.
Il mio vorrebbe anche essere un invito a ripartire nella storia degli anni di piombo su nuove basi: prima di scrivere una storia generale, bisogna fare la storia delle Brigate Rosse a Milano, a Torino, a Genova, a Roma, perché ciascuna di queste storie, in realtà, è diversa.
Nel caso di Genova ci sono tanti aspetti, da considerare: il porto, le montagne… questa città “di curva”, schiacciata fra il mare e le montagne, con un'industria molto diversa da quella delle due città di fondazione delle BR, Milano e Torino. Perché - Pirelli a Milano, Agnelli a Torino – il nemico era il padrone, lì. Era la grande fabbrica privata. A Genova, invece, il nemico era più sfuggente e al tempo stesso più chiaro.
Le grandi imprese siderurgiche, meccaniche e cantieristiche di Genova in quegli anni erano gestite dallo Stato attraverso il sistema delle partecipazioni statali e quindi per le Brigate Rosse, dalla prima metà degli anni ’70 Genova era il luogo ideale per lanciare quello che loro chiamavano “l'attacco al cuore dello Stato”.

Accanto a quello dei cosiddetti “operativi”, c’era un sistema che cercava di fornire un apparato teorico all’esperienza e che potremmo riassumere nella figura di Gianfranco Faina, uno dei cosiddetti “cattivi maestri”. Che tipo era Faina? E come influenzò l'evolvere della situazione a Genova?

Come lei sa, io stesso nel libro metto le virgolette all’ espressione “cattivo maestro”, perché la trovo abusata.
Ma è vero che nella temperie ideologica del ‘68-‘69 e dei primi anni ‘70 ci sono state due città dove i professori universitari hanno avuto un'influenza di particolare importanza sulle nuove generazioni: Padova e Genova. A Padova c’è stato Toni Negri, leader operaista dalla presenza carismatica che ha finito per coinvolgere una generazione intera di studenti nell'esperienza dell’Autonomia Operaia. Un’esperienza che, soprattutto nella sua prima fase, è stata molto vicina a quella delle Brigate Rosse, per coordinate ideologiche e anche paramilitari, se è vero che il magistrato Pietro Calogero e anche il generale Dalla Chiesa - protagonista dell'azione di contrasto al terrorismo - hanno potuto credere erroneamente dopo il delitto Moro che a Padova nella figura di Toni Negri si nascondesse il capo delle Brigate Rosse.
Quella di Genova è, per certi versi, una storia simile e infatti Faina, coetaneo di Toni Negri e suo amico di operaismo agli anni ’60, è una figura comparabile, nel contesto di quella città.

Fra i due ci furono, però, differenze importanti…

Sì, la principale differenza fu che poi Faina accolse Mario Moretti a Genova a metà anni ’70, nel momento in cui Moretti aveva ereditato da Renato Curcio il “bastone del comando” nelle Brigate Rosse e si muoveva per fondare una colonna genovese. Quindi Faina è stato - più organicamente di Negri - al confine fra una traduzione del movimentismo extraparlamentare in lotta armata e la pratica della lotta armata vera e propria. Tant’è vero che poi fonderà un gruppo rivoluzionario tutto suo. Ma, essendo lui un uomo impaziente, indisciplinato e fantasioso, non era adatto a guidare il gruppo clandestino ordinato, leninista e stalinista che le Brigate Rosse avevano bisogno di formare.
Ma come ben dimostra il caso di Dura, si faceva carriera rapidamente, nelle Brigate Rosse: questi gruppi erano piccoli e spesso sorprendentemente efficienti rispetto alla povertà dei loro numeri e delle loro risorse.

E poi c'è un'altra figura che lei "tira fuori dall'ombra"...

Sì. Enrico Fenzi assume grande importanza nella vicenda delle BR per due motivi.
Il primo: Fenzi è stato il primo brigatista dotato degli strumenti culturali per riflettere retrospettivamente sulla propria storia e lo ha fatto fin da subito, negli anni ’80, quando è uscito di galera e ha scritto un libro importante.
Il secondo: Fenzi è stato il cognato di Giovanni Senzani, l'altro grande intellettuale – diciamo “uomo di studio” - prestato alla lotta armata. Il mio libro cerca anche di mostrare come attraverso questi fili biografici si possa ricostruire una parte della storia.

A differenza di coloro che cercano di stabilire una verità storica attraverso il romanzo, lei si approccia al saggio storico con passo da romanziere. Qual è il punto di equilibrio tra questi due sistemi apparentemente incompatibili?


Ci sono due risposte possibili alla sua domanda: una più generale, che riguarda la contaminazione di generi sperimentata soprattutto dagli scrittori... penso a Ivan Jablonka o Emmanuel Carrère in Francia; Javier Cercas, in Spagna… Ci sono figure che sono anche modelli, per me. Salvo che io faccio un altro mestiere, perché sono uno storico e quindi, diversamente da loro, non ho il diritto di inventare nulla. Al tempo stesso, nonostante lo storico faccia ogni sforzo per trovare la documentazione, ha la necessità di colmare dei vuoti.

Le storie, la Storia: avremmo anche potuto intitolare così la conversazione con Sergio Luzzatto che oggi vi abbiamo proposto. 

Luzzatto si è fatto conoscere nel tempo come uno storico capace di saldare efficacemente quella frattura di cui gli studi sull'Europa moderna soffrono spesso: la distanza fra le storie individuali che hanno contribuito alla definizione di una particolare congiuntura e il più ampio disegno storico che a quella stessa congiuntura sottende. 

Ogni volta che un nuovo libro di Luzzatto - oggi docente di Storia moderna europea alla University of Connecticut - arriva in libreria, ecco che ci viene offerta l'occasione per approfondire ed imparare, nella consapevolezza che strada facendo entreremo in contatto con le casualties della storiografia: e cioè le storie dei singoli, che sono spesso vittime collaterali della prospettiva "dall'alto" che lo storico deve adottare per poter comprendere nel proprio sguardo un periodo o una vicenda nella sua interezza. Soprattutto, Luzzatto è sempre capace di tenere il proprio sguardo a un altezza che gli consenta di capire le ragioni individuali, psicologiche e sociali per le quali le persone continuano a restare tali, prima di diventare personaggi o protagonisti di una vicenda.

Dolore e furore è un gran libro. Buona lettura!

Per chi vuole approfondire

Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse

Di Sergio Luzzatto | Einaudi, 2023

Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa

Di Sergio Luzzatto | Einaudi, 2021

Il brigatista e l'operaio

Di Giovanni Bianconi | Einaudi, 2011

Guido Rossa. Un operaio contro le BR. Ediz. integrale

Di Nazareno Giusti | Round Robin Editrice, 2017

Brigate rosse. Una storia italiana

Di Mario MorettiCarla MoscaRossana Rossanda | Mondadori, 2007

Novecentosettantotto. I giovani, le Brigate Rosse, Aldo Moro

Di Pietro IngraoRossana Rossanda | Bordeaux, 2021

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Insegnante di Storia moderna all'Università di Torino. Laureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha svolto un dottorato presso la Scuola Superiore di Studi Storici di San Marino. Successivamente è stato docente presso l'Università di Genova e l'Università di Macerata. Studioso della Rivoluzione francese, ha scritto inoltre di storia italiana fra Otto e Novecento, concentrando la sua indagine in particolare sul revisionismo in materia di resistenza e lotta partigiana. Il suo saggio Bonbon Robespierre (Einaudi 2009) ha vinto la tredicesima edizione del Premio letterario città di Bari nella sezione saggistica. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo L'autunno della Rivoluzione (1994), Il corpo del duce (1998), Il Terrore ricordato (2000), La crisi dell'antifascismo (2004), Padre Pio (2007 e 2009), Bonbon Robespierre (2009), Il crocifisso di Stato (2011), La mummia della repubblica (2011), Una febbre del mondo. Mille anni di storia in quindici vite (2016), I bambini di Moshe (2018), tutti editi da Einaudi. Tra gli altri: Partigia (2013), Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia (2019), Max Fox (2019). Ha curato inoltre, con Victoria de Grazia, i due volumi del Dizionario del fascismo (2002-3); con Gabriele Pedullà, l'Atlante della Letteratura italiana (2010-2012).

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