I giornali inglesi celebrano in questi giorni il sessantesimo anniversario di Lawrence d’Arabia, proiettato per la prima volta nei cinema nel 1962. Se qualche appassionato della settima arte non lo ha ancora visto, è l’occasione per guardarlo in DVD o in streaming, anche se l’esperienza di vederlo in un cinematografo, su grande schermo, è unica.
Per chi non lo conosce, è la storia della rivolta araba contro l’Impero Ottomano, guidata da un giovane tenente colonnello dell’esercito britannico, il Thomas Edward Lawrence del titolo, sullo sfondo della Prima guerra mondiale. Da un lato, un film d’azione, con battaglie, marce a dorso di cammello attraverso il deserto, treni fatti saltare con la dinamite, il protagonista catturato e torturato dai turchi (anzi stuprato, sebbene la pellicola lo lasci soltanto intuire). Dall’altro, un film politico, sulla manipolazione degli arabi da parte dell’Occidente per sconfiggere i turchi: anziché ricevere in cambio un’Arabia indipendente come è stato fatto loro credere, le varie tribù di beduini si ritrovano in un Medio Oriente suddiviso dalle grandi potenze europee con il righello sulla carta geografica e colonizzato.
Ma è anche la storia di un uomo, Lawrence, che degli arabi si innamora (letteralmente, sebbene anche in questo caso il film lasci soltanto intuire la sua omosessualità più o meno repressa) e che si sente poi colpevole di averli traditi, perché le tribù lo avevano seguito in guerra fidandosi della sua parola. Una storia autentica, sia pure con qualche libertà dettata da esigenze cinematografiche, tratta dall’autobiografia dello stesso Lawrence, I sette pilastri della saggezza, anch’essa un capolavoro per chi avesse voglia di leggerla, ma più complicata e pesante dell’adattamento cinematografico. “Fate attenzione agli uomini che sognano di giorno”, scrive l’autore nell’introduzione, “perché cercano di realizzare i propri sogni”.
Se il libro è lungo 800 pagine, nemmeno la pellicola è una passeggiata: dura quasi quattro ore.
Eppure, volano. Merito della regia dell’inglese David Lean, uno dei più grandi della storia del cinema (diresse anche Il dottor Zivago e Il ponte sul fiume Kwai); merito soprattutto dell’interpretazione di Peter O’Toole, al suo esordio, di una bravura e di una bellezza da lasciare senza fiato. Può sembrare incredibile ma non vinse l’Oscar per il miglior attore: bisogna ammettere che competeva con altri giganti dello schermo, Gregory Peck, che vinse per Il buio oltre la siepe, Marcello Mastroianni per La Dolce Vita, Burt Lancaster per L’uomo di Alcatraz e Jack Lemmon per I giorni del vino e delle rose, ma con il senno di poi la statuetta sarebbe dovuta andare a lui, che non ripeté mai più una performance dello stesso livello. Candidato a dieci Oscar, Lawrence d’Arabia ne vinse comunque sette, incluso miglior film e migliore regista.
Magari approfittando delle vacanze di Natale, prendetevi il tempo per guardarlo: non ve ne pentirete.
Anzi, vi verrà voglia di saperne di più, di leggere il libro del colonnello Lawrence, o una sua biografia. E risentirete a lungo nelle orecchie la colonna sonora del film, dal momento in cui la storia passa dal funerale del protagonista, morto per un incidente in motocicletta al ritorno in Inghilterra, all’epica della sua sfida nel deserto.
“Perché le piace tanto il deserto, colonnello?” gli chiede, leggermente disgustato, un altro ufficiale britannico.
“Perché è pulito”, risponde Lawrence, e non c’è bisogno di aggiungere altro.
Altre riflessioni di Enrico Franceschini
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