Sono stato ben quattro volte nei parchi divertimento Disney.
Una a ventitré anni insieme a due coetanei, a Disneyland, in California, per un solo giorno. Una a EuroDisney a Parigi, con mio figlio, per un paio di giorni. E due a Disneyland Orlando, in Florida, ciascuna per una intera settimana, sempre con mio figlio, la prima volta noi due soli, quando lui aveva dieci anni, la seconda portando anche un suo amico, quando di anni ne avevano tredici o quattordici.
Insomma, ho una certa esperienza del tipo di intrattenimento...
Se la prima volta, quando ero giovane, fu un divertimento scatenato, perché nel lontano 1979 Disneyland ai nostri occhi di provinciali italiani rappresentava il futuro, l’innovazione, la modernità, tutto quanto in Italia ancora non era arrivato, le volte successive le visite sono state più faticose. Quella da solo con mio figlio di dieci anni somiglia nei miei ricordi a un campo di addestramento dei Marines: levatacce, marce forzate, combattimenti per ottenere il posto migliore, rancio immangiabile e soprattutto ripetitivo, ma che divoravo lo stesso, perché non c’era alternativa.
Quei ricordi mi tornano in mente leggendo della battaglia in corso alla Walt Disney, il cui amministratore delegato Bob Chapek è stato nei giorni scorsi licenziato, per venire sostituito dal predecessore Robert Iger. Una delle colpe rimproverate a Chapek è che sotto la sua gestione i visitatori dei parchi divertimento non erano più considerati “ospiti” e i dipendenti non più “membri del cast”. Qualcuno dirà che quei termini sono una tipica ipocrisia disneyana: il tentativo di rendere la realtà più zuccherosa.
Ma un fan della Disney, in un lungo articolo pubblicato questa settimana dal New York Times, sostiene che il problema di Chapek era proprio questo: “Non credeva alla magia di Disney”.
Ipocrisia o magia? Realtà zuccherosa o necessità di credere almeno un poco alle favole?
Personalmente, sto col fan della Disney. Quel nome, Walt Disney, per me ha rappresentato la magia fin dal tempo in cui la Tivù dei Ragazzi, come si chiamava l’ora di trasmissioni dedicate ai bambini nella Rai a canale unico in bianco e nero degli anni Sessanta, mandava in onda qualche cartone animato della Disney.
Si vedeva il castello di Disneyland. Partiva una musichetta che apriva il cuore. E poi arrivavano Topolino, Minnie, Paperino, Pluto e gli altri eroi animati.
Di Topolino sarei presto diventato un avido lettore, ogni settimana, grazie al giornalino a fumetti omonimo. In seguito arrivarono anche per me i film della Disney al cinema: Biancaneve, Cenerentola, Bambi, Dumbo, Fantasia, La carica dei 101, Peter Pan, Lilli e il vagabondo, La spada nella roccia, Il libro della giungla, Gli aristogatti, Robin Hood.
E molto più tardi, guardati e riguardati insieme a mio figlio su videocassette e DVD, Il re leone, Hercules, Pocahontas, Tarzan, Aladdin.
La saga continua per i bambini e genitori odierni, basti citare la serie Frozen.
Naturalmente la Walt Disney odierna è molto altro: una grande azienda multimediale che produce film di ogni genere e canali in streaming.
Ma per me, al di là della retorica, qualcosa rimane dell’incanto che provavo da piccolo. Come nel brano cantato all’inizio di Pinocchio dal grillo, “When you wish upon a star”, che nella versione italiana fa: “C’è una stella su nel ciel, che ogni sogno può appagar”. So bene che non sempre i sogni si esaudiscono, come succede invece in Pinocchio, come nei cartoni animati della Disney.
Ma non c’è niente da fare: quando sento quelle note un po’ mi commuovo ancora, pensando che forse, chissà, ognuno di noi ha la possibilità di appagare il proprio desiderio.
Altre riflessioni di Enrico Franceschini
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