Il genius loci di Roccamare è uno spirito che è uscito dalla lampada negli anni Sessanta, per non rientrarvi più.
In questo luogo di mare nel grossetano, si sono avvicendate traiettorie umane ed esperienze artistiche, lasciando aleggiare un sentimento che Alberto Riva rievoca con passione e rigore nel suo bel libro Ultima estate a Roccamare, pubblicato da Neri Pozza.
Una pineta in Maremma, apparentemente lontana dalle mappe degli snodi editoriali che hanno caratterizzato il secondo novecento italiano.
Eppure, a Roccamare hanno preso forma e spesso sono stati portati a termine alcuni dei romanzi che continuiamo a leggere, e ai quali siamo dispostissimi a concedere la patente di classici.
Pietro Citati, Carlo Fruttero, Furio Scarpelli… soprattutto, Italo Calvino: una repubblica delle lettere il cui statuto era orgogliosamente portato avanti da questi illustri cittadini, giorno dopo giorno, lavorando incessantemente all'erosione del confine spesso fittiziamente frapposto tra vita e letteratura.
Fino a quell’estate del 1985 nella quale Calvino, intento a rifinire le sue Lezioni americane, muore.
E allora tutto cambia, pur restando in apparenza identico.
Alberto Riva è tornato in quei luoghi per sciogliere, a modo suo, un enigma in luogo di mare (come recitava il titolo di uno dei romanzi più belli di Fruttero e Lucentini).
Fra dune e pini, confortato dalla mappa preziosa che gli scrittori hanno dissimulato nella loro opera, Riva ci restituisce oggi il risultato di quel formidabile carotaggio nel tempo e nello spazio, e noi non possiamo che essergli grati. Ecco la nostra intervista con Riva.
Buona lettura, e buon viaggio!
«Non è un vero e proprio romanzo, quello di Riva, ma in realtà si legge con la medesima passione di un romanzo. Racconta un luogo, la pineta di Roccamare, alcuni personaggi famosi della letteratura italiana oggi scomparsi (come Fruttero, Calvino, Citati e altri), e, insieme, un’epoca culturale – anch’essa scomparsa – di grande vitalità e di notevole valore. Lo fa, da vero narratore, con una partecipazione, una nostalgia, e una competenza oggi rarissime.» - Giorgio Montefoschi
L'intervista
Maremosso: Quella estate del 1985, l’estate in cui Calvino muore, è anche una finestra che si chiude sul Novecento delle lettere italiane. Più precisamente, su un modo di intendere la cultura come esperienza totalizzante e collettiva, e non come un “mestiere”. Da questo punto di vista, il libro che hai scritto è un modo per misurare la distanza di quel momento storico con quello che viviamo oggi.
C’è anche una riflessione di questo tipo, all’origine di “Ultima estate a Roccamare”?
Alberto Riva: Non credo si tratti di misurare la distanza, in quanto in realtà non sento risuonare una distanza, perché il dialogo con questi autori è costante.
Il libro nasce anzi dal dialogo che, proprio grazie al deposito nel tempo della loro eredità, si può fare più meditato, approfondito, circostanziato. In alte parole: si può avvicinarli e ascoltarli con più calma, guardandoli da lontano e tutti insieme. È invece molto molto vero ciò che dici rispetto alla fine di un’epoca. Anche se non accade in senso letterale, la scomparsa di Calvino segna una cesura – la cesura in un modo di intendere la letteratura, che un autore e un uomo come lui incarnava – e oggi quegli anni ci paiono gli ultimi in cui, nella stessa estate, erano ancora tutti lì: Calvino, Citati, Fruttero & Lucentini a Roccamare, Soldati a Tellaro, Tobino, Cassola, Garboli in Versilia, Fellini sul set a Roma, Kundera a Parigi a rifiutare interviste sull’Insostenibile, eccetera. Il libro è fatto, credo, di dialoghi a distanza, segreti e intuitivi.
MM: Italo Calvino è il nume che veglia, benigno ma severo, su tutti gli intrecci che si sviluppano attorno a Roccamare. Eppure, Calvino fu un solitario (bellissime le pagine dedicate alla sua postazione di lavoro nella casa di Roccamare, somigliante al nido di un uccello). Qual è stata, a tuo avviso, la caratteristica principale di Calvino come organizzatore e “costruttore di ponti” culturale?
AR: Calvino è stato tante cose durante la sua vita, nonostante la morte prematura.
Credo che la sua caratteristica principale fosse da individuare nella forza, fisica e mentale. Lavorò moltissimo. Fu uno scrittore molto prolifico fin da ragazzo, anche come giornalista e cronista.
Con le Fiabe italiane fu un infaticabile etnografo della cultura orale, e poi fece un monumentale lavoro di riscrittura e sintesi. Fu redattore, ufficio stampa, editor, coordinatore editoriale presso la Einaudi. Fu un grande viaggiatore (Diario americano è uno dei suoi testi più belli, divertenti e illuminanti). Fu un critico della cultura, non solo letteraria, ma dell’immagine, della fotografia, dell’arte, della grafica. Collaborò alla formazione e allo sviluppo di molti autori suoi contemporanei, da Lucio Mastronardi a Gianni Celati, da Leonardo Sciascia a Carlo Cassola, da Lalla Romano a Daniele Del Giudice. Aveva una pazienza infinita nel corrispondere con amici e autori (il libro che raccoglie le sue corrispondenze con Leonardo Sciascia, per esempio, è splendido).
Fu, solitario come era lui, l’uomo che in Italia lanciò un ponte tra la letteratura e le scienze, creando un travaso di metodo tra le diverse discipline, eredità non del tutto raccolta ancora a mio avviso. Le Lezioni americane sono in questo senso non tanto un epitaffio, ma una porta rimasta socchiusa, una porta che si stava aprendo su cose che potevano essere ancora più sorprendenti. Fa impressione che siano rimaste incompiute sulla scrivania di Roccamare: un congedo timido e quasi beffardo.
MM: Rosetta Loy, Giovanni Mariotti, Mario Tobino… il tuo libro è anche un riflettore puntato su figure che hanno goduto di grande autorevolezza nel mondo delle lettere italiane, ma che a volte abbiamo finito per trascurare. Qual è la figura che – mentre raccoglievi materiali per il tuo libro – hai avuto occasione di scoprire meglio (o quella che ti ha incuriosito di più)?
AR: Mario Tobino senza dubbio, un autore enorme e un uomo pieno di luci e ombre, di grande poesia e tragicità. O, come diceva Cesare Garboli, carico di un “odio toscano”, che poi è quel certo furore delle persone molto passionali e indifese. Invece, tra chi ho potuto conoscere e incontrare di persona, e che ora non ci sono più, senza dubbio Pietro Citati, un autore che va ancora scoperto tanto e letto, Rosetta Loy senza dubbio, donna di grandissimo fascino e talento. Giovanni Mariotti, che vive tuttora a Milano, un personaggio straordinario, di sublime eleganza mentale e leggerezza. La leggerezza che io amo di più, quella che sa essere anche un po’ malinconica. Quando ha letto il libro, Mariotti lo ha definito una ciotola di ciliegie, e si è rallegrato di essere una delle ciliegie.
MM: Fruttero e Lucentini assumono, nel racconto che “Ultima estate” compone, alla statura di figure potentemente comiche, in certe dinamiche, ma anche drammatiche, alla Bouvard e Pecuchet… come hai lavorato alla ricostruzione di un sodalizio umano e professionale tanto sui generis?
AR: Il libro nasce proprio da loro, dall’interesse per questa amicizia divenuta nel tempo bottega artigiana.
Ho potuto entrare nella loro storia, oltre che grazie alle loro memorie, scambi, libri, grazie a Carlotta Fruttero, figlia di Carlo, che vive a Roccamare e mi ha aperto l’intimità della loro casa, dei suoi ricordi. Sentivo che dovevo vivere e respirare quell’atmosfera per poterla rievocare e portare al lettore: io per primo dovevo sentire l’emozione di quel luogo, nelle diverse stagioni dell’anno, i colori, gli odori, l’orizzonte di quel tratto di costa tirrenica, così mutevole. D’altra parte, il vento di Roccamare è uno dei protagonisti del libro.
MM: Il quadro di Telemaco Signorini di cui la copertina riporta un particolare ritrae una marina viareggina, e non Roccamare, ma l’atmosfera che evoca è molto “ossi di seppia” e molto indicata per dire quel che troveremo dentro il libro. Come mai ti ha affascinato tanto?
AR: Conoscevo e ammiravo quel quadro da molto tempo.
Mi ha colpito da subito il soggetto, l’uomo solitario sulla spiaggia, che cammina di spalle, remoto, solo eppure confortato da questo paesaggio denso, pieno.
È infatti straordinario in Signorini l’uso del colore, lo spessore della luce, la divisione della luce nel dipinto creata dalle tre fasce cromatiche.
Anche qui: si tratta di un quadro profondamente malinconico, senza però essere triste. Tutt’altro.
MM: Il tuo è un viaggio fra storie e idee, ma è anche un viaggio vero e proprio. Oggi Roccamare conserva qualche eco del luogo d’incontro che fu? Oppure è diventata definitivamente altro?
AR: Credo che conservi quasi tutto. La sua magia è intatta. Perché è una magia interiore, che trova compimento nello sguardo che le si possa sopra.
Non ci sono più quei personaggi, ma quello che loro devono aver sentito aleggiare in quel verde infinitamente variato della pineta è ancora lì.
Il mare del signor Palomar è lo stesso mare, fuori dal tempo, specchio di qualcosa che è in noi, e che per fortuna sentiamo incompiuto.
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