Dopo la strage di piazza Fontana c’è un clima da guerra civile e un ragazzo di soli ventotto anni, appena arrivato dalla provincia, diventa protagonista di un’indagine che segnerà un momento di svolta per la magistratura e la società italiana. Il giudice si chiama Emilio Alessandrini. Perderà la vita a Milano il 29 gennaio 1979, ucciso da due killer di Prima linea
Con Un eroe comune (pubblicato da Marsilio), la storia degli anni di piombo in Italia si arricchisce di un capitolo nuovo e necessario.
Nella ricostruzione che Igino Domanin fa della figura del giudice Emilio Alessandrini, ucciso da Prima Linea la mattina del 29 gennaio 1979 a Milano, la novità sta innanzitutto nel taglio personale che Domanin conferisce alla storia stessa. Emilio Alessandrini, oltre che il magistrato celebre per la sua lotta all'eversione e al brigatismo, era suo zio.
Esponente di una leva di uomini di Stato che credevano nella necessità di accompagnare l'azione penale a una azione pedagogica, il giudice Alessandrini aveva capito che la chiave per uscire dalla situazione che si era creata in quegli anni sarebbe stata quella di isolare i militanti delle formazioni brigatiste dai contesti in cui avrebbero potuto fare proseliti.
Recidere, insomma, ogni possibile contiguità fra gli operativi delle BR o di Prima Linea e quei settori della società che egli riteneva maggiormente permeabili alla retorica della lotta armata. Questa fa la sua grandezza, ma anche la sua condanna.
Un eroe comune -reca come sottotitolo "un romanzo familiare": ma non è uno stratagemma per rendere più attrattivo il libro agli occhi di quei lettori che siano magari in soggezione di fronte a un saggio storico sugli anni Settanta. No: quello scritto da Domanin è un romanzo perché attraverso la storia di una famiglia (alla quale appartenevano tanto lo scrittore quanto l'oggetto della sua indagine) fissa su carta la fotografia di un intero paese, colto in una contingenza storica drammatica.
Un paese con le sue aspettative, le sue paure, i suoi cambiamenti e le forze che lo percorrevano, quelle emerse e quelle sotterranee. E tutto questo precipita nella figura ossimorica di un "eroe comune", quella appunto di Alessandrini. Noi abbiamo voluto parlare del libro e di Alessandrini in occasione dei 45 anni dal suo assassinio ad opera di un commando di Prima Linea, a Milano. Ne è venuta fuori una conversazione che - siamo certi - offrirà più di uno spunto di riflessione a chiunque si interroghi sul rapporto fra la storia recente del nostro paese e il presente in cui viviamo.
Buona lettura!
Igino Domanin, buongiorno.
Nell’ossimoro contenuto nel titolo “Un eroe comune” sembra echeggiare una duplice ambizione: da un lato, lei ha voluto raccontare l’eccezionalità di suo zio Emilio Alessandrini, giudice assassinato da militanti di Prima Linea nel 1979. Dall’altro lato si avverte l’urgenza di sottrarne la figura alla retorica della glorificazione. I tempi sono finalmente maturi, dunque, per fare largo a una comprensione più ampia e profonda dei protagonisti di quegli anni di piombo?
Il titolo è, innanzitutto, un omaggio implicito a Corrado Stajano e al suo ritratto dell'eroe borghese Ambrosoli.
C'è un motivo, poiché lessi, quasi furtivamente, durante la mia adolescenza il libro di Stajano sul caso Donat-Cattin.
Quel libro mi fornì il primo accesso alla vicenda traumatica dell'omicidio di mio zio.
Sono trascorsi decenni, ma ho sempre avuto il pensiero, tormentato e combattuto, di tornare sui temi che avevo incontrato in quel libro. Ero consapevole, naturalmente, di doverlo fare sapendo che la distanza storica consente un'apertura interpretativa diversa di quegli stessi fatti. Stajano aveva un piglio morale, doveva giudicare e stigmatizzare il nichilismo terrorista. Paradossalmente, pur essendo un parente della vittima, ho cercato di rompere con questo dispositivo o di liberarmene.
Non volevo condannare, rivendicare, avere ragione. Per questo ci sono state le indagini, i tribunali, i processi.
La verità storica, da questo punto di vista, è leggibile. Al contrario c'era una zona nascosta, interdetta, forse occultata proprio dalla prosopopea della forma eroica. Volevo raccontare un tempo umano, che oscilla, senza coincidere, tra memoria collettiva e ricordo personale. "Comune" significa due cose: la prima è che Alessandrini è stato un eroe perché non ha avuto altra stella polare che lo svolgere fino in fondo il proprio mestiere di magistrato. La seconda è che proprio per questo diventa una figura che non è mai faziosa. A mio avviso, è l'eroe di un patriottismo repubblicano che si fonda sullo stato di diritto, non sul suolo e sul sangue o sulla giustizia di classe, cioè sui falsi miti totalitari che hanno legittimato l'uso della violenza politica nel nostro Paese.
Il ritratto di Emilio Alessandrini che emerge dalla lettura del suo libro è un ritratto in movimento, l’immagine di un uomo curioso, vivace, divertente. Uno zio che sapeva farsi amare dai nipoti e al contempo una persona che aveva ben chiaro il suo ruolo all’interno di una società in preda a violenti cambiamenti.
Qual è il ricordo personale che ai suoi occhi definisce la saldatura fra il familiare e l’uomo di Stato?
Era un ragazzo, che è morto assai giovane. Ho voluto coglierlo appunto in quella giovinezza, che è appunto anche l'eredità migliore di quel tempo doloroso. C'era una Italia aperta ai cambiamenti, che desiderava allargare i confini della democrazia e avviare una riforma dei poteri. Il ricordo personale più profondo è che mi faceva molto ridere, e che parlava di cose che mi apparivano piene di futuro. Per esempio, certe esilaranti narrazioni sulle spiagge nudiste in Grecia o sui locali della controcultura come il Macondo. Non capivo bene di cosa parlasse, ma era sempre un vento di allegria.
Anche se lo vedevo sui giornali, anche in TV. Finché seppi che una sua foto era stata trovata nel covo di un terrorista, pochi mesi prima della sua morte.
L’intuizione di Emilio Alessandrini – lei spiega – fu quella di isolare i gruppi brigatisti già operativi dai contesti nei quali potevano cercare una sponda politica, culturale e sociale. Legalità e prevenzione, dunque, attraverso una lettura per nulla ideologica del proprio ruolo di magistrato. Ma quella condotta da Alessandrini fu un’azione isolata? O trovò terreno fertile presso le istituzioni che rappresentava?
L'intuizione di Alessandrini si fonda su un metodo sociologico, prima che giuridico, d'indagine dei fenomeni.
Cercava di capire, anche immergendosi nella realtà che doveva comprendere, senza l'uso cieco e preventivo di mezzi repressivi. La sua concezione del diritto è mite, cioè democratica. La sua lettura del terrorismo di destra è riassunta nella celebre requisitoria sui fatti di Piazza Fontana, probabilmente la maggiore eredità che ha lasciato.
Meno nota, invece, la sua attività nel campo dell'eversione di sinistra, dove riesce a leggere per primo i cambiamenti interni ai movimenti di contestazione, la formazione di gruppi militanti che stanno convergendo verso la lotta armata. Nel libro tento di spiegare le distanze e i rapporti tra il brigatismo e il terrorismo di Prima Linea che uccise Alessandrini.
D'altra parte era impossibile fino al momento dell'omicidio Alessandrini, il 29 gennaio 1979, mettere a fuoco queste dinamiche. Il travisamento di certe intuizioni portò anche al disastro dell'affaire 7 aprile dove tutti i piani restarono confusi e, perciò, pure le responsabilità effettive.
Fu questo il “peccato capitale” di Alessandrini, agli occhi dei suoi assassini? In fondo, lui era divenuto celebre soprattutto per il suo lavoro su Piazza Fontana e sull’eversione nera, anche se in seguito a quell’inchiesta si occupò del terrorismo di sinistra…
Nel clima ormai impazzito di quel contesto storico fu percepito come un pericolo, come un magistrato in possesso di informazioni, come qualcuno che era in grado di arrivare a colpire organizzazioni come Prima Linea. Tutto, però, avviene sulla base di sensazioni più che di fatti. La dimensione simbolica precede e spiega la realtà. Anche questo, credo, è molto presente nella narrazione del libro.
Come reagì all’omicidio del Giudice, invece, la cosiddetta società civile? E quale ricordo serba, oggi, dei funerali di suo zio?
Fu una mobilitazione eccezionale, che ricorda i funerali della strage di Piazza Fontana, una enorme folla era presente per le strade e in Piazza del Duomo.
La presenza di Sandro Pertini ebbe un significato fondamentale, che segnava anche una presa di posizione netta e irrevocabile di rifiuto della lotta armata da parte dei lavoratori e degli studenti.
C'era appena stato l'omicidio di Guido Rossa e la morte di Alessandrini era immediatamente collegata con la fine tragica del sindacalista.
Io ho visto tutto quanto in televisione, quel giorno finiva la mia infanzia.
Nel mio racconto parlo spesso di eventi televisivi, perché ero uno di quei bambini che si nutrivano di televisione e che in essa riconoscevano il proprio mondo e il proprio linguaggio. Finché quel giorno non vidi i miei parenti dentro il video per i funerali di zio Emilio. Erano come catapultati dalla mia vita familiare dentro la realtà collettiva della televisione. Il cortocircuito straniante, in quel momento, tra il momento privato e quello storico.
La mia vita è nella fretta/ La mia strada si è ristretta/ La mia casa è una cantina/ La mia vita è in officina/ Il lavoro a me mi stende/ E per giunta non mi rende
La canzone degli Skiantos riportata in epigrafe del libro, al di là del tono goliardico, mette il dito in un “trauma originario”, per così dire: la miseria delle vite cui erano condannati moltissimi operai fu una parte dell’equazione terribile alla luce della quale oggi rileggiamo – o ci rifiutiamo di farlo – quegli anni.
Per questo ha scelto di affidare a quelle parole l’esergo del suo libro?
Esatto, il testo geniale che si riferisce allegoricamente sia all'eroina sia al rifiuto del lavoro mi pareva emblematico del nichilismo, del no future, della programmatica demenzialità come risposta alla crisi esistenziale di un Paese smarrito.
La provincia e la periferia di questo Paese smarrito giocano un grande ruolo nel suo racconto.
Pescara, ad esempio, emerge come laboratorio di uno sviluppo urbanistico e sociale particolarmente disordinato. Il boom economico degli anni Sessanta non produsse cioè solamente benessere, ma anche disuguaglianze e lacerazioni nel tessuto sociale. Molti dei protagonisti della lotta armata e delle forze che la contrastarono venivano proprio dalla provincia. Come mai, a suo avviso?
Pescara è la concrezione del sogno disordinato della civiltà affluente, della società del benessere, insomma del boom economico. Una città distrutta dalle bombe che rinasce e si espande rapidamente tra industria, edilizia, turismo.
Un contesto vitalistico, denso di pulsioni e di affetti, che volevo ricordare come quello delle sicurezze tipiche dell'infanzia, da un lato, ma anche di un intero Paese che si riteneva pacificato e al di là dei conflitti terribili della Guerra. Per rispondere sui terroristi che vengono dalla provincia mi sentirei di dire che, probabilmente, in loro c'era una sorta di ripulsa verso questo tipo d'integrazione, di rivolta generazionale che si abbatteva moralisticamente contro i comfort della borghesia consumistica.
Negli ultimi anni si assiste a una rilettura degli anni di piombo da una prospettiva inedita, in ambito editoriale: ci sono i casi di Mario Calabresi e di Benedetta Tobagi, i cui genitori sono state vittime della violenza e del terrorismo. Più recentemente, Giuseppe Culicchia ha raccontato la storia di suo cugino Walter Alasia, esponente delle BR ucciso dalla Polizia in un conflitto a fuoco. È questo, forse, il tassello mancante a una storiografia che oggi è ormai ricchissima di informazioni ma alla quale mancava ancora la componente più intima e privata?
Ho voluto scrivere un memoir, se vogliamo un romanzo, più che un saggio, una testimonianza autobiografica o una biografia.
In altri termini ho voluto affidare stavolta a una intelligenza narrativa il compito di articolare i diversi piani temporali che consento d'incrociare leggenda privata e documento pubblico. Nel libro ci sono tre forme di racconto.
La prima è più lunga e distesa, cioè l'arco temporale della vicenda pubblica del magistrato.
La seconda, il racconto reso al presente, quasi cristallizzato, del bambino che sono stato.
Infine, in modo contratto e meditativo, la voce del professore di liceo che sono adesso.
Ogni buona indagine storica sorge da una domanda, e la sua non fa eccezione: la sua attività di insegnante la mette quotidianamente a contatto con ragazzi che ignorano (spesso completamente) quel che accadde negli anni Settanta in Italia. Si è spezzata una trasmissione di saperi, evidentemente. È venuto a mancare un passaggio di testimonio al quale tocca a chi insegna sopperire.
Come reagiscono i suoi allievi, di fronte a un racconto come quello che lei oggi ha messo su carta?
Il punto di partenza è la fragilità della memoria, che non è un possesso, bensì una formazione in divenire.
La memoria è viva come un organismo, si assottiglia o cresce in base a come noi ci rapportiamo ad essa.
Mi pareva che il vuoto che si è aperto, inevitabilmente, l'infrangersi della catena dei saperi, dovesse essere sfruttata per creare un nuovo rapporto con quel periodo e ricostituire una memoria condivisa tra chi c'era e le nuove generazioni. Naturalmente mi aspetto delle reazioni dai miei alunni e forse perfino dalle mie figlie.
Proprio perché non le conosco, ho voluto scrivere questo libro.
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