Di una terra, un fiume e dei laghi
Sotto altre spoglie andavamo un tempo,
tu in volpe, io in abito da puzzola;
fummo ancor prima fiori di marmo,
nevosi in una gola tibetana.
Cristalli senza luce e senza tempo
ci liquefammo nella prima ora,
ci avvolse il brivido della vita intera,
fiorimmo nel polline del primo senso.
Viandanti nel miracolo lasciammo
i vecchi panni per indossarne nuovi.
Succhiammo forza da ogni nuovo suolo
e mai più il nostro respiro s’arrestava.
Leggeri uccelli fummo e gravi alberi,
delfini audaci e mute uova d’uccello.
Morti e poi vivi, un essere eravamo,
e poi una cosa. (Mai saremo liberi!)
Senza poter fermarci migravamo
in ogni corpo pieni di gran gioia
(E tacerò cosa per me tu sia –
mite colomba per la pietra scabra!)
Mi amavi. Io amavo i veli tuoi,
le lievi stoffe che la stoffa librano,
e discreta la notte ti stringevo.
(Se solo ami! Vederti non pretendo!)
Giungemmo nel paese delle fonti.
Trovammo gli atti. Il paese intero,
così amato, sconfinato, ora era nostro.
(Da Ingeborg Bachmann, Invocazione all’Orsa Maggiore. Poesie, Edizione con testo a fronte a cura di Luigi Reitani, con una Nota di Hans Höller, Adelphi, Milano 2023)
Nel libro Invocazione all’Orsa Maggiore, pubblicato nel 1956 dalla poetessa austriaca a lungo vissuta in Italia Ingeborg Bachmann (1926-1973) e tradotto da Luigi Reitani per Adelphi, c’è una poesia-sequenza intitolata Di una terra, un fiume e dei laghi. Il quarto brano della serie (sono tutti costituiti da quartine) è una specie di esplosione di energia creativa: un “io” e un “tu”, legati da un rapporto speciale, sono immaginati sullo sfondo di una serie di metamorfosi e collocati in un paesaggio mitico (al v. 6 la forma liquefammo adoperata dal traduttore andrebbe corretta in liquefacemmo).
La poetessa definisce l’“io” e il “tu” come «viandanti nel miracolo»: la poesia stessa che l’autrice sta scrivendo è un miracolo, con la sua serie di identità multiple, le sue sorprese, le sue trasmigrazioni da una forma all’altra. Ma forse si potrebbe dire che è la vita, la vita medesima attraversata dai due ad assumere la forma di un prodigio: «Senza poter fermarci migravamo / in ogni corpo pieni di gran gioia», dice l’autrice, prima di provare a definire i rapporti reciproci tra l’“io” e il “tu”.
Le preoccupazioni dell’autrice non erano infondate, e difatti non mancò chi cercò di ricondurre Invocazione all’Orsa Maggiore agli schemi della critica letteraria dell’epoca. Tentativi peregrini, perché davvero nessuna categoria poteva attagliarsi alla poesia di quella giovane austriaca.
Sembrerebbe allora di poter dire che la portentosa energia del testo scaturisca in realtà da una condizione primigenia, incorrotta, illesa. Le creature che si amano, che si guardano e si contemplano nell’amore, vivono in una dimensione di meraviglia, di sospensione, di continua trasmigrazione per le forme dell’essere. Nessuna sembianza, nessun aspetto del mondo è estraneo a coloro che amano: tutte si lasciano infilare e attraversare, in una pienezza gioiosa che sembra recuperabile nell’ottica onirica e magica del testo poetico, inteso qui come un gesto salvifico.
Ognuno di noi ha un “tu” per il quale e con il quale il mondo appare nelle sue forme prime, un “tu” grazie a cui la leggenda della vita si riavvolge ogni volta alle sue radici fantastiche. Pare insomma che la felicità espressiva di questa poesia della Bachmann sia resa possibile da un atto di confidenza, di intimità, di comunione, per mezzo del quale il mondo è riportato alla sua dimensione di avventura edenica.
Le forme verbali all’inizio e alla fine del testo sono all’imperfetto: «Sotto altre spoglie andavamo un tempo», «[…] Il paese intero, / così amato, sconfinato, ora era nostro. / Trovava posto nella tua mano a conca», come a suggerire una durata temporale distesa e sfumante nella assolutezza del mito. Il paese che i due personaggi contemplano, sconfinato, diventa grazie all’amore completamente loro e trova posto, come un minimo oggetto, nella mano del “tu”.
La serie delle metamorfosi e trasmigrazioni ha dunque come centro la decisione di amare: è questa decisione che rende le cose all’improvviso trasparenti, leggibili e pure indeterminatamente piene di sorpresa. La scrittura di questo concentratissimo esercizio di recupero e ritrovamento è dunque messa a stretto contatto con l’azzardo creatore, come se il mondo apparisse plasmabile all’infinito da un benevolo nume, a cui la poesia ha il potere di avvicinarci.
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